Superga, il caso dell'aereo G.212 e quella tragedia a Roma 25 giorni prima

L'inchiesta di Tuttosport in esclusiva a 75 anni dalla morte del Grande Torino: il giallo di quel velivolo, le carte sparite, i coni d'ombra nelle ricostruzioni
Superga, il caso dell'aereo G.212 e quella tragedia a Roma 25 giorni prima

La storia degli altri sette aerei dello stesso tipo di quello che trasportava il Grande Torino (il trimotore Fiat G.212), caduti in circostanze anche misteriose tra il 1948 e il 1954. L’incredibile scoperta che appena 25 giorni prima della tragedia di Superga (4 maggio 1949) uno di questi sette aerei era precipitato a Tor Sapienza, Roma: ed era già il secondo Fiat G.212 andato distrutto in appena 10 mesi prima della tragedia del Grande Torino (9 vittime, considerando anche il primo disastro aereo in Belgio nel 1948; quindi i 31 caduti di Superga).

E poi le inchieste e la sentenza in Tribunale sulla tragedia del Grande Torino: sparite, non più rintracciabili, incredibilmente svanite nel nulla. Sparita l’inchiesta civile condotta subito dopo la sciagura in appena un paio di giorni dal Registro Aeronautico Italiano. Sparita l’inchiesta militare, chiusa in due settimane. Sparita addirittura la sentenza del giudice istruttore (procedimento penale avviato d’ufficio dalla Procura di Torino). Sparita persino la relazione ministeriale in Parlamento sulla tragedia, i cui esiti furono presentati in Senato nel corso del 1949.

Qui di seguito, disponibili liberamente anche in Rete, vi presentiamo in forma integrale la prima parte dell' inchiesta che abbiamo pubblicato in esclusiva nelle edizioni cartacee di Tuttosport del 25 e 26 aprile 2024 (inchieste frutto di mesi e mesi di studi e ricerche anche in archivi istituzionali), con a corredo le preziose testimonianze di Luigi Troiani, professore universitario di Relazioni Internazionali a Roma, e dello storico Stefano Radice. Uno squarcio nelle nubi di mistero che avvolgono la tragedia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Il caso degli aerei G.212

Forse non tutti sanno che...Non è conosciuto con assoluta certezza il numero preciso di quanti aerei G.212 trimotori furono prodotti dagli stabilimenti della Fiat Aviazione tra il 1946 (il primo prototipo volò nel gennaio ’47) e gli Anni 50. Più fonti accreditate tendono a sottolineare un dato: 19 aerei. Velivoli utilizzati sia per il trasporto civile di passeggeri (ma dell’aereo esisteva anche una versione cargo) sia dall’Aeronautica Militare per il trasporto di soldati, per l’addestramento e come scuola di osservazione e fotografi a aerea (G.212 “Aula Volante”). «L’ultimo G.212 in linea fu radiato nel 1959. È esposto presso il Museo storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle», spiega il sito ufficiale dell’Aeronautica. È l’unico G.212 ancora esistente. Il G.212 era l’evoluzione del G.12, modello lanciato agli inizi degli Anni 40 (il G.212 presentava una fusoliera più lunga e ampia; rivisto pure il disegno delle ali e della coda). Il prototipo montava motori Alfa Romeo 128, quelli per il trasporto civile (al massimo una trentina di passeggeri) i motori statunitensi Pratt & Whitney R-1830, più potenti. La velocità massima in volo a 2.500 metri di altezza era di 375 chilometri orari (300 la velocità di crociera). Come il G.12, anch’esso era stato firmato dall’ingegner Giuseppe Gabrielli, celebre e affermato progettista di numerosi velivoli civili e militari, entrato in Fiat Aviazione negli Anni 30. La sua carriera è stata ricca di riconoscimenti di prestigio anche internazionali. Il suo capolavoro è considerato il Fiat G.91, un caccia leggero: a fine Anni 50 l’aereo vinse un concorso della Nato e diventò il caccia standard dell’Alleanza atlantica (800 esemplari). 

Le inchieste e la ricostruzione dell'incidente

Torniamo a quella ventina di G.212. Una dozzina fu utilizzata per il trasporto civile, anche da compagnie straniere. Almeno 6 dalla compagnia Avio Linee Italiane (Ali: costituita dalla Fiat a metà Anni 20), poi sciolta nel 1952 e confluita nelle Linee Aeree Italiane. Il Fiat G.212 I-Elce era l’aereo su cui volò il Grande Torino nei suoi ultimi viaggi: Milano Barcellona-Lisbona (1° maggio 1949) e Lisbona-Barcellona-Torino (4 maggio). Alle 17,03 il terribile schianto contro il terrapieno dietro alla basilica di Superga (con la semiala sinistra, e successivo schiacciamento della fusoliera contro il muraglione). Nuvole e nebbia, visibilità tendente allo zero, pioggia scrosciante, vento: erano queste le condizioni atmosferiche. Alla velocità (calcolata a posteriori dalle inchieste) di circa 280 chilometri orari, gli occhi dei due piloti devono aver intuito solo all’ultimo la sagoma della basilica. Dai resti dell’aereo e dalla valutazione dell’impatto, emerse che il velivolo stesse cercando di cabrare. Come se il pilota avesse tentato disperatamente di far impennare l’aereo, quando improvvisamente scorse davanti a sé Superga. Troppo tardi. Nessuno si salvò: 31 morti.

Tre inchieste, dopo la tragedia: civile, militare e giudiziaria. L’inchiesta civile venne condotta dal Registro Aeronautico Italiano (Rai) nella persona del capo della direzione territoriale, l’ingegner Gallinaro, che prese in esame e non rilevò la presenza di avarie, malfunzionamenti o problemi strutturali del velivolo. L’inchiesta militare si concluse due settimane dopo la sciagura. Esaminati, naturalmente, anche gli aspetti legati all’assistenza tecnica del volo. Proviamo a riassumere, utilizzando anche fonti giornalistiche dell’epoca. Escluse avarie a motori o strumenti di bordo, esclusi malfunzionamenti e problemi strutturali dell’aereo. Accento posto sulle pessime condizioni meteo, quel terribile temporale su Superga: non da escludere vuoti d’aria improvvisi o l’influenza del vento. Imputabile l’incidente a un possibile errore di valutazione da parte dei piloti. In estrema sintesi: per via delle condizioni quasi proibitive con visibilità all’improvviso pressoché nulla, forse i due piloti (assistiti a bordo da un radiotelegrafista e da un motorista) credevano di essere là dove non erano. Un possibile errore di valutazione della posizione dell’aereo, nell’ultima parte del volo stabilita non più a vista, ma con l’ausilio di indicazioni strumentali. Un possibile errore tragicamente agevolato dalla modesta evoluzione tecnologica dell’epoca, assolutamente imparagonabile con l’attualità: oltre alle comunicazioni radio, quelle via radiogoniometro per il calcolo della posizione potrebbero essere state disturbate (e quindi parzialmente falsate) dalle scariche elettriche del temporale. Fu ipotizzato anche questo, per provare a dare una spiegazione. Oggi, già soltanto con la “scatola nera” e le registrazioni audio e satellitari, la tragedia non avrebbe misteri. Il piccolo aeroporto di Torino non aveva il radar, a differenza di Milano e Roma. Non esisteva ancora l’aeroporto di Caselle. Il Grande Torino sarebbe dovuto atterrare sulla pista dell’Aeritalia, anch’esso della Fiat. L’aereo (che aveva cominciato a puntare su Torino dopo aver sorvolato Savona verso le 16 e 30) alla fine compì una virata sulla sinistra “al buio” e si andò a schiantare. Erano le 17 e 03.

Riavvolgiamo il nastro. Lasciata Savona, alle ore 16,41 l’equipaggio chiese che venisse attivato il radiofaro di Novi Ligure (a nord-est) per controllare la posizione dell’aereo. Alle 16,55 (dunque a poche decine di chilometri dall’aeroporto) l’equipaggio aveva preannunciato alla torre di controllo l’atterraggio entro 15 minuti. Quindi, alle 16.58: «Quota 2.000 metri. Qdm su Pino, poi tagliamo su Superga». Il Qdm: venne cioè richiesta dall’equipaggio la rotta magnetica da seguire durante l’avvicinamento, fornita dalla stazione di radioassistenza di Pino Torinese (colle distante 4,6 chilometri in linea d’aria da Superga, che è il rilievo più alto tra le colline affacciate sulla città: 672 metri). Peraltro, secondo le inchieste, l’equipaggio non informò di procedere in volo strumentale. La tesi: i piloti cercarono probabilmente di volare appena sotto le nubi, per tentare di vedere qualcosa. Ma lo strato delle nuvole andava progressivamente abbassandosi, man mano che l’aereo si avvicinava a Torino.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Quei messaggi dall'aereo e le ipotesi scartate

Alle 17,01 il radiotelegrafista di bordo chiese conferma dell’angolo di approccio alla pista, che l’aereo (nei piani) avrebbe dovuto trovare dritta davanti al sé a una decina di chilometri di distanza, una volta terminata una virata a sinistra. E nuovamente domandò le condizioni atmosferiche. Alle 16.18 era già stato comunicato all’aereo: «Superga: cielo invisibile… Vento nord 10 nodi, visibilità 40 metri… Pioggia continua…». Presumibilmente, l’equipaggio credeva di trovarsi là dove non era. In una posizione arretrata, è la tesi più suffragata. Pensava di lasciarsi Superga a destra, una volta terminata la virata a sinistra. Invece i piloti si ritrovarono la basilica dritta davanti agli occhi, all’improvviso.

L’equipaggio era di indubbie, provate capacità. I due piloti Pierluigi Meroni e Cesare Bianciardi (ufficiali militari prestati all’aviazione civile, tutta da ricostituire nel dopoguerra) erano molto esperti e pluridecorati: eroi di guerra. Il primo pilota era anche istruttore di volo cieco pure in condizioni proibitive. Tante le domande, subito. Scarsità di carburante? Comunicazioni strumentali alterate da scariche elettriche causate dai temporali? Un tremendo vuoto d’aria? Fatalità, quindi? O errori di misurazione a bordo? Oppure comunicazioni non corrette da terra? L’inchiesta militare negò quest’ultima possibilità: 57 comunicazioni intercorse, nessuna carenza di assistenza da parte dell’aeroporto, dati forniti correttamente. Smentita anche la possibilità di un malfunzionamento contemporaneo di tutti e tre gli altimetri a bordo, dopo l’analisi dei reperti trovati tra i rottami. Secondo i militari, per evitare la tragedia sarebbe stato sufficiente che l’aereo volasse più in alto di una settantina di metri. Oppure sarebbe bastata una differenza di una decina di secondi nella tempistica di quella virata a sinistra.

Rimane da valutare l’inchiesta della Magistratura. La Procura intendeva accertare le eventuali responsabilità dei due piloti, con l’ipotesi di reato di disastro aereo e omicidio colposo (fascicolo di istruzione formale a carico dei piloti Meroni e Bianciardi, avviato d’ufficio dalla Procura di Torino). Escluse avarie, malfunzionamenti a bordo, problemi strutturali dell’aereo e responsabilità del personale a terra nelle comunicazioni. Possibile imprudenza e negligenza dei piloti. Ma sorgevano anche il dubbio della fatalità e soprattutto la possibilità di un’errata valutazione della posizione del velivolo in volo, poco prima della tragedia (comunicazioni strumentali falsate dalle scariche elettriche provocate dal temporale?). E così il fascicolo si concluse con la richiesta del pm di non doversi procedere per la morte degli imputati. Presunti reati estinti. Tanto il pubblico ministero, nelle conclusioni, quanto il giudice istruttore, nella sentenza, si accontentarono di porre un interrogativo senza risposta: «Fu tale manovra», cioè il comportamento dei piloti, «colpevole?»

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Il contesto storico

Oggi, 75 anni dopo, dobbiamo obbligatoriamente attenerci agli esiti delle inchieste, senza pensare di poter scovare chissà come e chissà dove ulteriori verità. E rifuggendo illazioni o tesi non provate, di qualunque tipo esse siano. Dobbiamo anche ragionare tenendo presente la realtà e persino la mentalità comune dell’epoca. Di un Paese distrutto dalla guerra, terminata appena 4 anni prima. La povertà imperante, la ricostruzione lunga e difficile: anche dell’aviazione civile, da far rinascere tra mille difficoltà e limiti. La dotazione di velivoli del nostro Paese, militari e civili, era globalmente e tecnologicamente arretrata rispetto a quelle di altre nazioni europee e degli Stati Uniti. In ogni caso, anch’esse neanche lontanamente paragonabili con gli aerei di oggi, quanto alla sicurezza. Nel 1949 in Italia si verificarono ben 34 incidenti aerei tra Aeronautica Militare, operatori nazionali di trasporto civile (come l’Avio Linee Italiane) e voli privati. Le vittime furono 53. In quegli anni si registravano medie di schianti al suolo e di atterraggi d’emergenza che adesso giudicheremmo terribili. E l’esame dei resti dell’aereo a Superga (una volta spentosi l’incendio conseguente allo schianto) che si svolse in brevissimo tempo, con metodologie non più applicabili, oggi? Anche in questo caso ci domandiamo quanto avrebbe senso evocare il senno di poi e i sistemi odierni di indagine. Dobbiamo attenerci a quelle tre inchieste e alla sentenza del giudice istruttore.

Quell'incidente a Roma 25 giorni prima di Superga

Quell’aereo, il G.212, ebbe una vita non fortunata. Di quella ventina di velivoli prodotti in pochi anni, 8 (civili e militari) subirono drammatici incidenti tra il 1948 e il 1954: 40 morti, più feriti gravi e gravissimi. Irrecuperabili gli aerei, distrutti o danneggiati in modo irreparabile. Incidenti emersi in fasi di volo diverse e/o per ragioni anche molto differenti tra loro. Impossibile paragonare sic et simpliciter gli incidenti, oltretutto quasi tutti avvolti dal mistero di cause più o meno imprecisate. Oggi si sa quanto si può sapere (cioè pochissimo) grazie per esempio ai database di due fonti internazionali che catalogano tutti gli incidenti aerei del pianeta. L’Aviation Safety Network (catalogati e, là dove possibile, spiegati oltre 23mila incidenti capitati dal 1919 a oggi), di proprietà della Flight Safety Foundation, organizzazione internazionale senza fini di lucro nel campo della sicurezza aerea, fondata negli Usa nel 1945. E il Bureau of Aircraft Accidents Archives, nato in Svizzera nel 1990. Entrambi i database annoverano quegli 8 incidenti.

Il primo luglio del 1948 il primo incidente. Nei pressi di Bruxelles. Aereo civile: 8 morti. I due database parlano di condizioni meteo pessime (pioggia, nuvole basse, nebbia), di un tentativo di atterraggio di emergenza, di una virata a sinistra, di un aereo entrato in stallo. Citati come fonte gli esiti dell’inchiesta.

Il secondo incidente il 9 aprile 1949: appena 25 giorni prima di Superga. Poco dopo il decollo, un G.212 militare precipitò a Tor Sapienza, Roma, uccidendo a terra un bambino di 11 anni che stava giocando con i compagni di scuola. Il breve resoconto giornalistico pubblicato il giorno dopo su un quotidiano italiano e il database svizzero parlano di problemi di controllo dell’aereo. Meno di un mese dopo, Superga. Poi, a ottobre sempre del 1949: schianto di un altro G.212 civile, in Egitto, dopo il decollo. Seguono gli incidenti di 2 aerei militari, nel 1951 e nel febbraio 1953: per la rottura del motore. A dicembre 1953 il settimo incidente, anch’esso per motivi differenti (in fase di atterraggio, tentativo di evitare la collisione con un piccolo aereo in avvicinamento). Nel luglio 1954 l’ultimo drammatico episodio: in Kuwait, con operatori arabi (atterrando di notte, il pilota urtò una duna di sabbia). Un nono G.212 fu distrutto nel 1956: però a terra, in Egitto, durante la Crisi di Suez, colpito da un attacco nemico. Della tragedia di Superga negli archivi istituzionali non si trovano più né le inchieste, né le perizie né il fascicolo della sentenza del giudice istruttore. Una parziale ricostruzione di queste è oggi possibile attraverso gli articoli giornalistici dell’epoca, gli atti parlamentari e l’analisi della Causa civile (questa sì rintracciabile) intentata negli Anni 50 dal Torino contro l’Avio Linee Italiane sostenendo la colpa dei piloti, per cercare di ottenere un risarcimento. Per il club granata, sconfitta in tutti e tre i gradi di giudizio, quasi a priori: la legislazione dell’epoca, quanto al rapporto di lavoro giuridicamente inteso tra una società di calcio e i calciatori, non riconosceva risarcimenti in casi come questi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

"Quasi la metà di quegli aerei cadde in volo"

Quando mesi fa leggemmo il romanzo di Luigi Troiani “Il comandante restò sulla collina” (definito “romanzo-verità” dal critico letterario Walter Pedullà), compimmo non uno, ma sei salti sulla sedia. Scoprimmo l’esistenza per l’appunto di sei incidenti capitati ai G.212 in pochi anni. Non solo la tragedia di Superga, dunque. Alzi il braccio chi lo sapeva o lo aveva già letto altrove. Con alle spalle una lunga e lusinghiera carriera, Troiani (nel 2023 Premio nazionale “Il Libro”, Pleiade International Award, Premio giornalistico Amerigo) è un affermato professore universitario di Relazioni Internazionali, a Roma. Saggista, giornalista, conferenziere, opinionista per più testate anche internazionali, gi ricercatore ad Harvard, anche poeta.

“Il comandante restò sulla collina” racconta la storia di un pilota e della sua famiglia, l’ufficiale Pierluigi Meroni, pluridecorato eroe di guerra, con gli occhi del figlio Giancarlo, che aveva 7 anni quando il padre morì a Superga. L’avventurosa e affascinante (per quanto tragica) biografia romanzata si appoggia su una mole di ricerche storiche e d’archivio. La scrittura di Troiani è avvincente, appassionata, calda, mai banale e sempre fluente, in certi tratti poetica. L’ultimo capitolo, di carattere anche tecnico (l’autore si è avvalso della consulenza dell’autorevole generale dell’Aeronautica Militare Giancarlo Naldi), ricostruisce la tragedia, le inchieste e, dopo tre quarti di secolo, accende i riflettori anche su quegli altri cinque incidenti. Con Troiani, con un altro storico esperto della tragedia di Superga (il professor Stefano Radice: ne parleremo nella puntata di domani) e con la consulenza dell’avvocato Claudio Caminati del Foro di Torino abbiamo ricercato ulteriori fonti e documentazioni, oltreché, invano, le inchieste originarie e la sentenza del giudice istruttore.

Grazie a questo lungo, faticoso, complicatissimo lavoro di ricerca siamo riusciti anche a scoprire che gli incidenti con G.212 andati distrutti sono stati in realtà otto, non soltanto sei. Due in più: 9 aprile 1949, 25 giorni prima di Superga, e 11 dicembre 1953. Professor Troiani, si sapeva per esempio che nell’aprile del 1948, un anno prima della tragedia di Superga, la squadra “ragazzi” del Torino (oggi diremmo: la Primavera), che era volata in Inghilterra per un torneo, rischiò la vita. Il pilota atterrò “lungo”, il velivolo non riuscì a fermarsi in tempo e finì la sua corsa contro un hangar. Nessun ferito, per fortuna. «Quasi un segno premonitore. Quel modello di aereo era evidentemente nato nel 1947 sotto una cattiva stella. Un G.212 cadde già l’anno dopo in Belgio: 8 vittime. Nel 1949 cadde a Roma in aprile e a Superga in maggio, e poi altre 5 volte in pochi anni. Mi risulta che l’azienda costruttrice smise di produrre i G.212, dopo averne realizzati 19».

Oltre a ricordare le versioni ufficiali, il suo romanzo pone domande.

«Al centro del romanzo c’è il figlio del pilota. Per 75 anni si è chiesto quali fossero le responsabilità paterne, senza trovare una sola perizia da cui partire per una risposta definitiva. Ricostruisce fatti nascosti o ignorati. Quasi la metà dei G.212 cadde in volo. Le autorevoli banche dati sui disastri aerei, Baaa e Asn, non sanno documentare nei dettagli la tragedia di Superga. Primo e secondo pilota, il capitano Pierluigi Meroni e il maggiore Cesare Bianciardi, si erano distinti con la Regia Aeronautica e Meroni era istruttore nazionale di volo cieco. Nel romanzo, il figlio rileva fatti e comportamenti sinora mai portati alla luce».

Nel suo romanzo compaiono anche molte fonti giornalistiche dell’epoca.

«Ho evocato una certa premura a voltare pagina, comportamenti di autorità gi a pochi minuti dallo schianto. Se il dirigente che sale a Superga, tra rottami fumanti e con 31 corpi straziati, si appella alla “concomitanza di imponderabili” e dice che “ogni mente umana” sarà incapace di trovare le ragioni dell’accaduto, sembra convinto dell’impossibilità di ricostruire dinamica e responsabilità dell’incidente e pone l’accento sulla commiserazione retorica: “Un caso veramente tragico, dinanzi al quale ci inchiniamo come aviatori e sportivi”. Nel romanzo, il figlio non l’accetta: i morti e i loro famigliari non meritano soltanto inchini, ma di sapere, di capire. Due giorni dopo, l’ingegnere del Registro aeronautico italiano dichiara di escludere ipotesi di avaria. La cabina di pilotaggio e i suoi strumenti sono un ammasso informe, sopravvive solo la coda. Nel romanzo mi chiedo: da dove tanta certezza?».

Abbiamo visto su YouTube la presentazione del suo romanzo alla “Casa dell’Aviatore” di Roma. Il generale Mario Arpino, già capo di stato maggiore sia dell’Aeronautica Militare sia delle Forze Armate, racconta un’esperienza diretta che...

«Si, e il generale è stato cosi gentile da inviarmi uno scritto sull’episodio: siamo nel 1957 a Pomigliano e ci si addestra sul G.212, che verr poi radiato e sostituito anche da macchine più vecchie. Una sezione del corso si era trovata in “rischio mortale”, ricorda il generale Arpino, perché “il velivolo (...) nelle nubi aveva stallato malamente e si era quasi rovesciato, perdendo parecchia quota. (...) Pare si fosse sovraccaricato rapidamente di ghiaccio fino a uscire di controllo”. Gli aviatori in addestramento ne erano scesi “terrorizzati”. E' una testimonianza molto autorevole. Fa pensare».

Lei pubblica in genere libri di politica internazionale. Cosa ha significato scrivere questo romanzo?

«Nella narrativa non devi solo far ragionare, ma anche emozionare. Chi lo ha letto, mi ha detto che cosi succede. Il romanzo, che percorre la storia del pilota dentro la Storia del XX secolo italiano, racconta un’Italia sconosciuta ai più e solleva interrogativi su Superga».

Lei ha già presentato il romanzo in diversi Toro Club. Dell’incontro con i tifosi dell’associazione “Picciotti del Toro” di Marsala scrisse anche Tuttosport.

«Un’esperienza bellissima, anche sotto il profilo umano: mi accompagnò l’editore, Carlo Morrone, che è di Siracusa. Le presentazioni del romanzo con il popolo granata sono state emotivamente coinvolgenti. In una, a Crescentino, conobbi Franco Ossola, il figlio del campione del Grande Torino. Disse in pubblico che aveva letto il romanzo in una sola mattina, e ne era rimasto emozionato. Aggiunse di abbracciargli Giancarlo Meroni, l’82enne figlio del pilota. Di portargli l’affetto dei figli del Grande Torino, consapevoli che tutti hanno sofferto la stessa tragedia».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

La storia degli altri sette aerei dello stesso tipo di quello che trasportava il Grande Torino (il trimotore Fiat G.212), caduti in circostanze anche misteriose tra il 1948 e il 1954. L’incredibile scoperta che appena 25 giorni prima della tragedia di Superga (4 maggio 1949) uno di questi sette aerei era precipitato a Tor Sapienza, Roma: ed era già il secondo Fiat G.212 andato distrutto in appena 10 mesi prima della tragedia del Grande Torino (9 vittime, considerando anche il primo disastro aereo in Belgio nel 1948; quindi i 31 caduti di Superga).

E poi le inchieste e la sentenza in Tribunale sulla tragedia del Grande Torino: sparite, non più rintracciabili, incredibilmente svanite nel nulla. Sparita l’inchiesta civile condotta subito dopo la sciagura in appena un paio di giorni dal Registro Aeronautico Italiano. Sparita l’inchiesta militare, chiusa in due settimane. Sparita addirittura la sentenza del giudice istruttore (procedimento penale avviato d’ufficio dalla Procura di Torino). Sparita persino la relazione ministeriale in Parlamento sulla tragedia, i cui esiti furono presentati in Senato nel corso del 1949.

Qui di seguito, disponibili liberamente anche in Rete, vi presentiamo in forma integrale la prima parte dell' inchiesta che abbiamo pubblicato in esclusiva nelle edizioni cartacee di Tuttosport del 25 e 26 aprile 2024 (inchieste frutto di mesi e mesi di studi e ricerche anche in archivi istituzionali), con a corredo le preziose testimonianze di Luigi Troiani, professore universitario di Relazioni Internazionali a Roma, e dello storico Stefano Radice. Uno squarcio nelle nubi di mistero che avvolgono la tragedia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Loading...