All'inizio era «una cosa fatta bene può sempre essere fatta meglio». Motto meraviglioso nel suo relativismo, perché migliorarsi non è mai una questione assoluta, ma va sempre calata nelle circostanze e adattata alle capacità. E dentro si trova tutto il piacere della sfida di non porsi limiti. Lo aveva coniato il senatore Giovanni Agnelli, fondatore della Fiat nel 1899 e papà di Edoardo, primo Agnelli presidente della Juventus, che, a sua volta, amava ripeterlo ai dirigenti e ai giocatori, non a caso Campioni d'Italia per cinque volte di fila dal 1930 al 1935. In quel «può sempre essere fatta meglio» c'è una cultura del lavoro molto piemontese: la fiducia, anzi la fede che i risultati passino solo dalla fatica e dall'applicazione e mai dall'accontentarsi. Una filosofia perfetta per quell'azienda, che non a caso diventerà impero; calzante anche per uno sportivo, che di traguardi ne taglia in continuazione, ma solo il campione riesce a porsene sempre di nuovi.
"Vincere è l'unica cosa che conta"
Il vincere, in questo contesto, è un concetto sfumato. È ovvio che chi compete abbia come obiettivo naturale la vittoria, ma «migliorare» può anche voler dire passare dal terzo al secondo posto. Detto ciò, la Juventus degli Agnelli non è mai partita per arrivare sul podio, ma sempre per puntare all'oro, proprio perché parte di un universo dove arrivare prima degli altri era considerata una buona abitudine da non dismettere mai. Tuttavia, «Vincere non è importante, ma l'unica cosa che conta» è qualcosa non del tutto in sintonia con la filosofia della «cosa fatta meglio» e, peraltro, è un motto tutt'altro che antico e neanche del tutto juventino.
Storia di un motto iconico
La storia di quella frase, senza dubbio accattivante, l'ha pronunciata per la prima volta Henry Russell Sanders, meglio noto come Red Sanders, coach della squadra di football americano dell'università Ucla di Los Angeles, i Bruins. Nel 1950, prima di una partita molto importante, aveva riunito la squadra e aveva detto ai suoi: «Men, I'll be honest. Winning isn't everything" («Ragazzi, sarò onesto. Vincere non è importante») poi una lunga pausa teatrale e la battuta finale: «Men, it's the only thing!» («Ragazzi, è l'unica cosa»). Per la cronaca, la partita era stata vinta e quella frase era finita nell'articolo del Los Angeles Times del 18 ottobre 1950. Peraltro Sanders era un discreto coniatore di slogan, visto che arringando la squadra prima della sfida contro gli arcinemici della University South California (i Trojans) si era parafrasato con successo: «Battere i Trojans non è una questione di vita o di morte. È molto più di questo». Quel «Vincere non è importante, è l'unica cosa che conta» era comunque piaciuto molto a un altro coach di football, il leggendario Vince Lombardi (per capire “quanto” leggendario, a lui è dedicato il trofeo del Superbowl). Lombardi nel primo giorno di allenamenti della sua prima stagione con i Green Bay Packers pronunciò la frase con grande successo, visto che vinse cinque campionati in sette anni (con due finali). Probabilmente l'aveva sentita direttamente da Sanders, forse l'aveva captata in un film del 1953 (Trouble Along the Way) che l'aveva citata sempre in ambito football. Dovunque l'abbia sentita, la frase da quel giorno diventa di Vince Lombardi, con buona pace di Sanders.
Quando Boniperti fece sua la frase
Almeno fino a quando non se la prende Giampiero Boniperti, circa quarant'anni dopo. Come sia arrivata nella Torino di fine Anni 80 dagli Stati Uniti Anni 50 non è ancora del tutto chiarito, anche se la ricostruzione più credibile è che Piero Bianco, che nella Juventus dell'epoca faceva quello che oggi si chiamerebbe “direttore della comunicazione” (nella Juventus ovviamente scritto in inglese), suggerì la frase a Boniperti per inaugurare la prima stagione con Dino Zoff in panchina. Dopo il grigio biennio di Rino Marchesi e in una fase di dominio del Milan berlusconiano e del Napoli maradoniano, Boniperti sentiva il fiato sul collo di un sempre più insofferente Gianni Agnelli e provava a rilanciare l'idea di una Juventus cazzutissima che, almeno caratterialmente, ricordasse quella degli Anni 70. «Vincere non è importante, è l'unica cosa che conta» gli sembrò una frase molto ficcante, per riportare la mentalità di quel periodo, quando perdere uno scudetto all'ultima giornata (vedi Perugia 1976) era un'onta che prevedeva sostanziali decurtazioni di ingaggio nella stagione successiva, quando gli stipendi vennero trattati con la foto della partita del Curi sulla scrivania. Così, tanto per ricordare.
La frase sulla maglia
Insomma, questa frase viene pronunciata alla squadra e anche ai giornalisti in fase di presentazione dell'annata. Ed è la prima volta di cui se ne ritrova traccia scritta. Non si tratta, quindi, di un concetto intrecciato nel DNA juventino dalla notte dei tempi, ma di uno slogan relativamente giovane, che non ha ancora compiuto quarant'anni sui 127 di storia juventina. Certo, negli ultimi tempi quel motto ha avuto una visibilità e un utilizzo intensivo. Nel 2012, nella terza stagione di gestione Andrea (e del secondo dei nove scudetti), comparve sul colletto della maglietta, una specie di memento ai giocatori che in quella frase si imbattevano ogni volta che la dovevano indossare. Ma, soprattutto, è stata pronunciata dallo stesso Boniperti nella magica notte dell'inaugurazione dello Stadium (8 settembre 2011), nel momento più drammaturgico di tutti, quando lui e Alessandro Del Piero (non uno qualsiasi) erano seduti sulla panchina dei fondatori. Più consacrazione di così...
Il motto di riserva
Eppure quel motto dice poco della juventinità storica, dello spirito che ha accompagnato il club, anzi lo riduce al mero conteggio dei trofei. Come se la ultracentenaria storia della squadra fosse relegata nella sala coppe del J-Museum e non nel resto delle sale, che invece ne raccontano mille di storie, intrecciate con una filosofia più ampia. In quel buco, d'altronde, c'era cascato pure Red Sanders, che per primo s'era infilato nell'imbuto della sua frase. E aveva scritto molte righe e rilasciato molte interviste per spiegare che no, lui non intendeva ridurre tutto alla vittoria, ma spingere a dare sempre il massimo, e anche di più, per raggiungerla e che, se si era combattuto con tutte le proprie forze, senza risparmiarsi, la sconfitta era un fatto doloroso ma accettabile. Il che riporta al motto olimpico che noi oggi citiamo in una versione leggermente modificata rispetto all'originale, perché all'inizio De Coubertin (peraltro anche lui rubando il concetto a un altro, il reverendo americano Ethelbert Talbot (ospite a Londra per la prima edizione dei Giochi Moderni) non aveva proprio detto «L'importante non è vincere, ma partecipare», ma «L'importante è combattere, non vincere», sottolineando come il fine ultimo dell'agonismo sportivo sia la pugna non l'esito finale. I tifosi direbbero «sudare la maglia», Gattuso direbbe «mangiare l'erba», Andrea Agnelli direbbe «fino alla fine», motto di riserva della Juventus che, forse, dovrebbe diventare titolare. Perché la storia del club è fatta di cadute e resurrezioni e proprio l'infinita capacità di rialzarsi e tornare in alto è fondamento intorno a cui i tifosi aggrappano la propria fede.