Il motto di riserva
Eppure quel motto dice poco della juventinità storica, dello spirito che ha accompagnato il club, anzi lo riduce al mero conteggio dei trofei. Come se la ultracentenaria storia della squadra fosse relegata nella sala coppe del J-Museum e non nel resto delle sale, che invece ne raccontano mille di storie, intrecciate con una filosofia più ampia. In quel buco, d'altronde, c'era cascato pure Red Sanders, che per primo s'era infilato nell'imbuto della sua frase. E aveva scritto molte righe e rilasciato molte interviste per spiegare che no, lui non intendeva ridurre tutto alla vittoria, ma spingere a dare sempre il massimo, e anche di più, per raggiungerla e che, se si era combattuto con tutte le proprie forze, senza risparmiarsi, la sconfitta era un fatto doloroso ma accettabile. Il che riporta al motto olimpico che noi oggi citiamo in una versione leggermente modificata rispetto all'originale, perché all'inizio De Coubertin (peraltro anche lui rubando il concetto a un altro, il reverendo americano Ethelbert Talbot (ospite a Londra per la prima edizione dei Giochi Moderni) non aveva proprio detto «L'importante non è vincere, ma partecipare», ma «L'importante è combattere, non vincere», sottolineando come il fine ultimo dell'agonismo sportivo sia la pugna non l'esito finale. I tifosi direbbero «sudare la maglia», Gattuso direbbe «mangiare l'erba», Andrea Agnelli direbbe «fino alla fine», motto di riserva della Juventus che, forse, dovrebbe diventare titolare. Perché la storia del club è fatta di cadute e resurrezioni e proprio l'infinita capacità di rialzarsi e tornare in alto è fondamento intorno a cui i tifosi aggrappano la propria fede.