Allegri, la giacca di San Siro e il cappotto di Modena: il precedente fa sperare

Non solo rabbia nelle sfuriate del tecnico della Juve in coda alla partita: sono messaggi mandati alla squadra attraverso il linguaggio del corpo
Allegri, la giacca di San Siro e il cappotto di Modena: il precedente fa sperare© Marco Canoniero

La partita, ormai, si gioca anche dalla panchina perché le immagini sono immanenti e soprattutto perché i giocatori in campo hanno una visione laterale molto sviluppata: i segnali che si diffondono dalla panchina sono seguiti con molta attenzione. Insomma, non è più solo una questione di “allenattori” (le due t non sono un refuso) ma di messaggi che si inviano ai propri uomini sia con le sostituzioni (un difensore in più induce ad abbassarsi, un attaccante a spingere) sia con le posture, con i messaggi del corpo più che con le urla. Così il segnale che manda Allegri quando fa volare un cappotto è molto più efficace di un urlaccio che, potete essere certi, dall’altra parte del campo non si sente per nulla quando stai immerso nel caos di San Siro. E se non è ancora stagione di cappotti, allora si rimedia - come domenica sera - con la giacca e la cravatta: una novità assoluta, quest’ultima, nel rito delle svestizione allegriana.

Che non è, badate bene, una novità introdotta nell’Allegri Bis ma risale ai tempi della sua prima avventura in bianconero: era il 20 dicembre 2015 quando al Braglia di Modena decollò il cappotto del mister. Troppo forte la tensione dopo che la sua Juve aveva ribaltato lo vantaggio di uno a zero portandosi sul 3-1 salvo, poi, subire il secondo gol e rischiare di spianare agli emiliani la strada verso il pareggio. Un rischio che ha mandato Allegri fuori controllo: ha aumentato la frequenza dei passi lungo la linea laterale e, tarantolato, ha gettato il cappotto senza peraltro che il gesto abbia contribuito a calmarlo. Anzi...

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Il cappotto contro il Carpi

Ecco, la prima volta è diventata iconica ma non è che ci si possa fermare all’estetica del gesto per analizzarlo compiutamente: serve andarci a fondo, provare a capire le motivazioni scatenanti. Perché sì, certo: la tensione accumulata durante tutta la gara ha, eccome, un peso specifico tutt’altro che trascurabile. Ma c’è anche, la necessità di tenere alta la tensione dei giocatori in campo, di far capire plasticamente che c’è da compiere “lo sforzo per battersi ancora per quell’ultimo centimetro”. Una questione collettiva più che individuale anche se, si capisce, sono l’insieme dei gesti di ognuno che fanno la differenza e che spostano in avanti i centimetri verso la meta finale, la voglia di aiutare ancora il compagno e di soffrire assieme a lui cercando le residue energie nei più reconditi serbatoi della propria anima. Così è un esercizio perfino capzioso andare alla ricerca di colui che scatena la furia di Max anche se, sì, l’episodio scatenante c’è sempre ma deriva dall’accumulo di disattenzioni e di leggerezze che gli fanno capire come il momento della sfuriata sia ormai arrivato.

Perché quello di Carpi non è rimasto un episodio isolato ma, anzi, in seguito si è ripetuto con maggiore frequenza di pari passo, verrebbe da dire, con la diminuzione del tasso tecnico e di esperienza che la Juventus ha potuto mettere in campo. Carenze che, peraltro, fanno aumentare la sua dose di nervosismo, come dopo la finale di Coppa Italia a maggio dell’anno scorso quando la giacca è volata via per la rabbia dopo il rigore concesso, e fatto ripetere, all’Inter. Sfuriate che si ripetono all’inizio dello scorso campionato quando la squadra fatica con lo Spezia e con la Fiorentina. E se non c’è più tempo per far svolazzare giacche, ecco che comincia a far roteare i pugni, l’espressione stravolta, per poi correre nello spogliatoio qualche secondo prima che l’arbitro fischi la fine. Qui, sì, la tensione la fa da padrone al punto che quest’anno, dopo la gara con il Bologna, ha disertato le telecamere per “una forte emicrania” pure un poco diplomatica.

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La resistenza di Max

Perché è un fatto, cravatta a parte, che negli ultimi tempi la soglia di resistenza di Max alle tensioni finali si sia ridotta. O che, semplicemente, lui per primo non voglia trattenersi troppo di fronte a situazioni che giudica incongrue. E non sono tanto le dichiarazioni post partita (durante le quali, da buon livornese, non si è mai sottratto alle tenzoni dialettiche), quanto le sfuriate con la panchina del Napoli (dopo la sconfitta interna a Torino) o con l’Inter dopo la semifinale di Coppa Italia. Ma pure in campionato quando, per evitare ammonizioni, rientrò negli spogliatoio lasciando Bonucci a guidare negli ultimi minuti.

Ma la cravatta mai: quella finora era stata risparmiata. Fino alla sfida di Milano, quando la rabbia per il “campo che non si è allargato come un aeroporto” lo ha indotto a liberare la giugulare dalla pressione del nodo.
Non Gordiano, ché non è servita nessuna spada per tagliarlo tanto che in diretta tv aveva già sistemato l’accessorio a favore di telecamere. Poi sì: il sorriso di Rabiot a fine partita, quando gli hanno chiesto un parere sull’Allegri show, è stato tutto un programma: «Il mister è così. Ha sempre voglia di vincere e di dare il 100% fino alla fine. Ci dà energia così, è bravo il mister». Ecco, casomai il timore è per l’escalation nella corsa scudetto: dopo la cravatta, cosa?

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La partita, ormai, si gioca anche dalla panchina perché le immagini sono immanenti e soprattutto perché i giocatori in campo hanno una visione laterale molto sviluppata: i segnali che si diffondono dalla panchina sono seguiti con molta attenzione. Insomma, non è più solo una questione di “allenattori” (le due t non sono un refuso) ma di messaggi che si inviano ai propri uomini sia con le sostituzioni (un difensore in più induce ad abbassarsi, un attaccante a spingere) sia con le posture, con i messaggi del corpo più che con le urla. Così il segnale che manda Allegri quando fa volare un cappotto è molto più efficace di un urlaccio che, potete essere certi, dall’altra parte del campo non si sente per nulla quando stai immerso nel caos di San Siro. E se non è ancora stagione di cappotti, allora si rimedia - come domenica sera - con la giacca e la cravatta: una novità assoluta, quest’ultima, nel rito delle svestizione allegriana.

Che non è, badate bene, una novità introdotta nell’Allegri Bis ma risale ai tempi della sua prima avventura in bianconero: era il 20 dicembre 2015 quando al Braglia di Modena decollò il cappotto del mister. Troppo forte la tensione dopo che la sua Juve aveva ribaltato lo vantaggio di uno a zero portandosi sul 3-1 salvo, poi, subire il secondo gol e rischiare di spianare agli emiliani la strada verso il pareggio. Un rischio che ha mandato Allegri fuori controllo: ha aumentato la frequenza dei passi lungo la linea laterale e, tarantolato, ha gettato il cappotto senza peraltro che il gesto abbia contribuito a calmarlo. Anzi...

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