Coraggio. Passione. Libertà. Sono l'architrave che Alessandro Calori si porta appresso da quarant'anni di carriera. Il cacciatore di orizzonti si gode l'estate nella casa in Sardegna, alla Maddalena, che proprio il calcio gli ha consentito di acquistare. Non è un buen ritiro. A 57 anni vuole ancora allenare, possibilmente una prima squadra anche se la recente esperienza con la Primavera della Lazio gli ha aperto nuove prospettive, scenari, allargando la mentalità di un uomo che non smette mai di studiare e studiarsi. Ancora inseguito da quel gol segnato con il Perugia, che 23 anni fa tolse alla Juventus uno scudetto che sembrava ormai in tasca, è l'uomo che può girare a testa alta trasmettendo lealtà, valori e calcio pulito in un mondo che di marcio ha, purtroppo, ancora tanto.
Calori, cosa le resta di quel 14 maggio 2000 irreale al "Curi" dove lei, che da piccolo era tifoso juventino, divenne il più odiato dai sostenitori bianconeri?
«Si dava per scontata la vittoria della Juve perché il Perugia era ormai salvo, in realtà si tende a dimenticare che grazie a quel successo raggiungemmo l'Intertoto. Nove volte su dieci una squadra con in campo Van der Sar, al quale faccio un grosso in bocca al lupo per quanto gli è accaduto nelle ultime ore, Davids, Zidane, Del Piero e Inzaghi avrebbe vinto perché i valori, oltre che le motivazioni, erano nettamente superiori. Se ancora oggi siamo qui a parlarne significa che avvenne qualcosa di strano come per altro il diluvio che interruppe la partita, la pausa di oltre un'ora, il sole che spuntò all'improvviso e quel gol che segnai non pensando, com'era giusto che fosse, al fatto che da bambino rimanevo ore e ore incollato alla televisione a guardare la mia squadra del cuore nella quale spiccava Gaetano Scirea, l'uomo al quale mi sono sempre ispirato per come stava in campo, passando dal ruolo di libero a quello di centrocampista e persino mezza punta, un pioniere se lo valutiamo oggi in cui si punta tanto sulla costruzione dal basso e sui difensori con i piedi educati, ma mi affascinava anche la sua educazione, quasi timidezza, fuori dal campo».