È un grande classico, quello delle tensioni tra i giornalisti e il ct della Nazionale. Ci han persino scritto su libri di pregio (inarrivabile “Azzurro tenebra”) e dunque non è tanto il come, ma il perché che va indagato circa la reazione sopra le righe (oh sì: è servita pure la mediazione del presidente Gravina affinché il ct telefonasse, dopo l’una di notte, per chieder scusa al collega in questione) di Luciano Spalletti. Reazione che, ovviamente, non è frutto solo della tensione di una partita riacciuffata all’ultimo secondo, ma si porta appresso ragioni ben più consolidate. Queste ultime hanno a che fare con il carattere di un tecnico indiscutibilmente bravo che però si porta dietro una tendenza al complottismo, al timore dell’accerchiamento e la conseguente necessità di compattare il gruppo contro le influenze esterne.
E il fatto che la Nazionale, a causa del minor tempo per lavorare, di un gruppo meno coeso, della possibilità di maggiori infiltrazioni si presti di più a questa dinamica per lui perniciosa, innesca un surplus di nervosismo di fondo. Quello, appunto, che lo ha indotto a sbottare (anche in maniera poco elegante quando ha fatto riferimento ai «14 anni di “pippe” ancora da fare per arrivare alla mia età») nei confronti di chi gli ha chiesto se la formazione fosse frutto di un patto tra i giocatori. Non tanto perché abbia inteso che la squadra gli abbia imposto la formazione («con i giocatori io ci parlo»), quanto per il timore dell’esistenza di una talpa: «Glielo hanno detto e fa bene a ridirlo. Non si prenda delle licenze che non sono sue. Sono debolezze di chi racconta le cose. C’è un ambiente esterno e un ambiente interno e se qualcuno racconta le cose interne, fa il male della Nazionale». Un’intemerata preceduta da quella a Sky con toni altrettanto risentiti, ma questa volta su questioni tattiche: «Prudenza? Ma quale prudenza? Se il limite di non saper giocare una palla in uscita come nel primo tempo è questo qui, vuol dire siamo sotto il nostro standard di livello».