Nella classifica dei personaggi più intriganti di questa prima parte di stagione calcistica, una posizione alta, anzi, altissima, non può che essere occupata dall’uomo che in pochissimi mesi è passato dall’essere un signor nessuno agli occhi dei più, a conquistare l’intero popolo Spurs e il centro del palco di quel grande spettacolo che è la Premier League. Eppure, per arrivare lì dov’è adesso, di strada ne ha dovuta fare tanta Ange Postecoglou.
La fuga dalla Grecia
Un giro del mondo iniziato da Nea Filadelfia, alle porte di Atene, dove il tecnico nasce 58 anni fa, e da cui i genitori lo trascinano via quando di anni ne ha soli 5, per sottrarlo alla dittatura della giunta dei colonnelli. «Ancora oggi non riesco a credere a quello che hanno fatto i miei genitori - confessò qualche tempo fa durante un’intervista rilasciata a Sky. Quello che hanno passato per portare una giovane famiglia dall’altra parte del mondo, su una nave per 30 giorni, in un paese di cui non conoscevano la lingua, in cui non conoscevano un’anima e non avevano né una casa né un hanno lavoro. Le persone dicono di andare in un altro paese per avere una vita migliore. I miei non erano alla ricerca di una vita migliore per sé stessi, ma sono andati in Australia per offrire a me questo privilegio».
Il calcio, un amore che tiene unita la famiglia
Dunque, è la lontana Australia a svezzarlo come calciatore: cresciuto nelle giovanili del South Melbourne Hellas, squadra simbolo degli immigrati greci della metropoli australiana, big Ange diventa un buon difensore, vincendo anche un campionato australiano con in panchina il grande Ferenc Puskas. Oltre alla maglia del club in cui è cresciuto e diventato un simbolo, veste anche quella del Western Suburbs, collezionando inoltre quattro presenze con la nazionale australiana. Il calcio è per lui un modo per sentirsi uguale a tutti agli altri: «Da bambino volevo solo inserirmi. Non mi piaceva necessariamente il fatto di venire da un altro Paese e di avere un cognome lunghissimo che nessuno riusciva a capire. Per un ragazzo il modo migliore per integrarsi era lo sport». Ma il calcio è anche il collante che tiene unita la sua famiglia nei momenti più difficili, come lui stesso ha raccontato in una recente intervista rilasciata a Gary Lineker: «Eravamo immigranti, e probabilmente, guardandomi, io non ho l'aspetto del tipico rifugiato. Ma questa è solo l'apparenza, perché è proprio quello che eravamo - ha confessato. Abbiamo fatto quel salto, siamo andati fin lì, siamo stati in una specie di campo profughi per un po' e poi abbiamo ottenuto una casa da condividere con un'altra famiglia. Non ricordo granché di tutto ciò. Ricordo però che sono cresciuto giocando all'aperto, divertendomi moltissimo da bambino. Ma per i miei genitori era dura. Io, come tutti i bambini, volevo stare il più vicino possibile a mio padre, ma lui lavorava sempre e l'unica cosa che in qualche modo conservava dentro di sé del vecchio Paese era l'amore per il calcio. Amava il calcio e all'epoca, crescendo, quello diventò il mio legame con lui. Andavamo alla nostra squadra di calcio locale, dove c'erano solo immigrati. Mio padre ci andava di domenica, chiesa e partita, e lì poteva parlare greco e mangiare souvlaki. Si sentiva a suo agio per un paio d'ore. Il calcio è stato fondamentale per quello che ha fatto a lui come persona, e per come a quei tempi ci ha tenuti vicini: ci sedevamo a tarda notte, e guardavamo le partite insieme, e la maggior parte erano partite di calcio inglese».