C'è una buona ragione se talento e tormento fanno rima. E bisogna cercarla, quella ragione, nella vita e nelle carriere di quei grandi campioni o artisti dannati dal loro genio. Roberto Baggio è un campione e un artista insieme: fa del calcio un'arte e, forse, così raddoppia il tormento. Lo capisce subito, quando al sorgere luminoso della sua carriera deve immediatamente combattere contro infortuni gravi, dolorosi e invalidanti. E con volontà inossidabile vince quella battaglia. Poi vede combattere nella sua anima la fedeltà e l'ambizione, quando la Juventus lo tratta con la Fiorentina. Vince l'ambizione e la voglia di una nuova sfida, ma resta una cicatrice che la nuova maglia nasconde solo in parte e che in seguito gli provocherà non pochi guai. Ma quel giorno, a Torino, viene accolto come un messia. E come un messia trattato. Compresa, quindi, l'attesa per i miracoli.
Quando Baggio cambiò la storia del calcio
E sono tempi duri per la Juventus che duella con il Milan stellare. Le aspettative dei tifosi sono rese ruvide dal digiuno e Baggio riceve un amore tanto grande quanto, a volte, spigoloso. Il tipo di amore che gli tira fuori la dedica più amara per la notte più bella: "Questi gol sono per chi mi ama veramente, quindi pochi" (sbaglia, perché pochi non sono, ma le storie più intense, si sa, sono anche le più complicate). Ma, frecciatine a parte, quella notte cambia la storia di Baggio; è la sterzata per imboccare la strada della gloria, pure quella accidentata e piena di buche per carità, ma certamente più luminosa e gratificante del vicolo battuto da chi "finora ha vinto solo i tornei da bar", come si era definito lui stesso con un irriverente colpo di tacco d'autoironia. E molto probabilmente sa che sta cambiando strada, quando mette giù il pallone per calciare quella punizione. Viene da pensarla così, anche a guardarne il viso nei filmati, cioè viene da credere che in quel momento vedesse più in là, fino a intravedere il luccichio del Pallone d'Oro. E che quei due passi indietro per prendere la rincorsa, lo stavano portando clamorosamente avanti.
Torino, 6 aprile 1993: si gioca Juve-Psg
Torino, 6 aprile 1993, Stadio Delle Alpi, Juventus-Paris Saint Germain, semifinale di andata di Coppa Uefa, che poi è l'ultima spiaggia per salvare la seconda stagione della restaurazione Boniperti-Trapattoni dopo il disastro di Maifredi. In ballo c'è tutto: dal destino dell'allenatore a quello della dirigenza. Gianni Agnelli, che quella restaurazione ha voluto, è insofferente e - per dire - quella sera manco è andato allo stadio. È a casa sua, la vede con amici francesi nel maxischermo che ha nella taverna e dove si gode il calcio da tutto il mondo grazie a un cespuglio di parabole sul tetto. Allo stadio ci ha spedito l'amico Michel Platini, dopo avergli affilato l'ironia: "L'Avvocato era a Parigi a vedere Psg-Real e si è già fatto un'idea di come può finire stasera". Siccome quella partita è finita 4-0 per i francesi, la battuta è velenosissima e non sembra neanche invecchiare malissimo, quando al 22' il Psg passa in vantaggio, dopo un inizio all'attacco, ma confuso della Juventus.