“La crisi dell’Italia è colpa dei tecnici. Barella? Mah, con tutto il rispetto…”

Intervista a Mircea Lucescu: “I giovani bravi devono giocare subito in Serie A, non finire - quando va bene - in B o in C. Lì non svilupperanno mai il loro potenziale”

L’Italia è stata e continua ad essere la sua seconda Patria. Dopo aver chiuso con l’Ucraina, non riuscendo più a far calcio per via della guerra, Mircea Lucescu, che il 29 di questo mese compirà 79 anni, si divide tra la Romania e il Belpaese dove ancora ha una casa sul lago di Garda. Anche lui è rimasto particolarmente colpito dal flop azzurro e anche se non lavora più sul territorio italiano da 25 anni (Pisa, Brescia, Reggiana e Inter le tappe) ha ancora contatti, ganci e frequentazioni. E questo Europeo lo sta vivendo in full immersion tra partite viste in televisione e dal vivo.

Che spiegazione si è dato per l’indecorosa eliminazione degli azzurri?
«Da anni è in atto il cambio di una generazione. Se provi a fare una squadra senza nomi o giocatori di esperienza, l’allenatore non può cambiare chissà cosa. La vittoria dell’Europeo di tre anni fa non è bastata a dare impulso, servono giocatori di personalità. L’Italia è sempre stata piuttosto conservativa nel tenere certi gruppi, i giocatori sono rimasti in azzurro per troppo tempo negli ultimi anni. Non mi riferisco ai Chiellini o Bonucci, ma ad altri, che andavano cambiati prima».

Manca più la mentalità, la leadership o un gioco offensivo?
«Chi è il leader in questo momento? Barella? Ecco, con tutto il rispetto per lui, ma non basta. Ci vogliono 4-5 giocatori di qualità ed esperienza attorno ai quali costruire il gruppo. L’Italia negli ultimi anni non è riuscita a farlo. Ci sono riuscite squadre come Romania e Ucraina, ma l’Italia no. Perché?».

Eppure i giovani bravi ci sono, altrimenti non si vincono nettamente i campionati come l’ultimo Under 17…
«Ecco, il problema è proprio qui. Io i giovani bravi li ho sempre fatti giocare, feci debuttare Pirlo in Serie A quando aveva compiuto 16 anni da soli due giorni. Il range di età dai 17 ai 21 anni è il più delicato per un giocatore: è in quel momento che cresce, esplode e diventa un campione oppure sparisce. In Italia li mandano, quando va bene, in Serie B o C e li lasciano lì per qualche anno, ma così facendo si adeguano al livello e quando vengono finalmente portati in Serie A si scontrano con calciatori già maturi senza aver acquisito le giuste competenze».

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Il vero problema

Quindi bisogna farli giocare in A già tra i 17 e i 21 anni?
«Se sono bravi, perché no? Non devono passare degli anni per consacrare un talento. Qualcuno deve prendersi le responsabilità di farli giocare».

Quindi il problema non è l’allenatore della Nazionale bensì lo sono quelli dei club?
«Mi pare evidente. Spalletti ha detto che d’ora in avanti si cambia e punterà di più su gente giovane, non ho dubbi che lo farà, ma bisogna vedere se gli allenatori delle varie squadre lo aiuteranno in questo compito. Che poi sarebbero loro stessi a trarne vantaggio».

La Romania ha fatto questo tipo di lavoro?
«Sì o almeno ci sta provando. Iordanescu in Nazionale ha prodotto un grande lavoro e sono convinto che possano eliminare l’Olanda e andare avanti. Io sarò allo stadio (i rumors lo vogliono proprio come erede dell’attuale ct, tentato dai petroldollari del calcio arabo, ndr) e tiferò così come sta facendo tutto il popolo romeno. Non abbiamo mai avuto un seguito di questo tipo, quando giocavo io in Nazionale avevamo dieci tifosi sulle tribune se non giocavamo in casa nostra…».

Cos’ha di speciale questa Romania da rendervi così ottimisti?
«È stato creato un gruppo forte mentalmente, quello che manca all’Italia. Le qualità individuali della Romania non sono da grandi squadre. Li aiuta la mentalità e l’organizzazione di gioco, si sacrificano tutti. È una squadra che gioca bene in difesa per poi proporsi in attacco in modo individuale. La Romania è cresciuta molto negli ultimi 2-3 anni. Quando il gruppo ha fiducia tutto è possibile. Una volta era così anche l’Italia…».

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Il punto sull'Europeo

Gheorghe Hagi ha detto che suo figlio Ianis a 25 anni è più forte di quanto lo fosse lui a quell’età…
«Non esageriamo. Sta giocando molto bene, è uomo da ultimo passaggio, i suoi compagni lo sanno e lo liberano per far sì che possa incidere con entrambi i piedi perché questa è la sua grande qualità. Gica aveva solo il sinistro, ma era determinante in tutte le partite. Ianis non ha ancora la forza d’animo e la struttura fisica di suo padre, che attaccava gli spazi, andava in battaglia. Ianis inoltre ci mette ancora una frazione di secondo in più, deve rilassarsi prima del passaggio, Gica era d’istinto. Ianis però adesso sta bene, in Italia quando lo prese la Fiorentina non avete potuto vederlo com’è realmente perché ha subito troppi infortuni».

Altri nomi di questa Romania che si stanno mettendo in luce?
«Razvan Marin da voi ha giocato solo con Cagliari ed Empoli, squadre di bassa classifica, ma in questo Europeo sta dimostrando di poter ambire anche ad una big. Dragusin ve lo siete lasciati scappare, anche perché il Tottenham ha messo sul piatto tanti soldi. Certo manca un centravanti: un Raducioiu o un Marica, gente veloce e con fiuto del gol, ora ci sono attaccanti più potenti fisicamente, ma non hanno disponibilità ad attaccare gli spazi».

Cosa sta dicendo questo Europeo?
«La Spagna è stata eccezionale contro l’Italia, ma ha segnato solo un gol, la Germania è andata a strappi. Le grandi sono ancora in maschera. Adesso che sono iniziati i match da dentro o fuori, i campioni come Mbappè e Bellingham ci faranno vedere cosa sono davvero capaci di fare, ma nonostante questo credo che potremmo assistere a una grande sorpresa che alza il trofeo».

Come accaduto in passato a Danimarca e Grecia?
«Proprio così. Magari sarà la volta dell’Austria, della Svizzera oppure toccherà proprio a noi della Romania».

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L’Italia è stata e continua ad essere la sua seconda Patria. Dopo aver chiuso con l’Ucraina, non riuscendo più a far calcio per via della guerra, Mircea Lucescu, che il 29 di questo mese compirà 79 anni, si divide tra la Romania e il Belpaese dove ancora ha una casa sul lago di Garda. Anche lui è rimasto particolarmente colpito dal flop azzurro e anche se non lavora più sul territorio italiano da 25 anni (Pisa, Brescia, Reggiana e Inter le tappe) ha ancora contatti, ganci e frequentazioni. E questo Europeo lo sta vivendo in full immersion tra partite viste in televisione e dal vivo.

Che spiegazione si è dato per l’indecorosa eliminazione degli azzurri?
«Da anni è in atto il cambio di una generazione. Se provi a fare una squadra senza nomi o giocatori di esperienza, l’allenatore non può cambiare chissà cosa. La vittoria dell’Europeo di tre anni fa non è bastata a dare impulso, servono giocatori di personalità. L’Italia è sempre stata piuttosto conservativa nel tenere certi gruppi, i giocatori sono rimasti in azzurro per troppo tempo negli ultimi anni. Non mi riferisco ai Chiellini o Bonucci, ma ad altri, che andavano cambiati prima».

Manca più la mentalità, la leadership o un gioco offensivo?
«Chi è il leader in questo momento? Barella? Ecco, con tutto il rispetto per lui, ma non basta. Ci vogliono 4-5 giocatori di qualità ed esperienza attorno ai quali costruire il gruppo. L’Italia negli ultimi anni non è riuscita a farlo. Ci sono riuscite squadre come Romania e Ucraina, ma l’Italia no. Perché?».

Eppure i giovani bravi ci sono, altrimenti non si vincono nettamente i campionati come l’ultimo Under 17…
«Ecco, il problema è proprio qui. Io i giovani bravi li ho sempre fatti giocare, feci debuttare Pirlo in Serie A quando aveva compiuto 16 anni da soli due giorni. Il range di età dai 17 ai 21 anni è il più delicato per un giocatore: è in quel momento che cresce, esplode e diventa un campione oppure sparisce. In Italia li mandano, quando va bene, in Serie B o C e li lasciano lì per qualche anno, ma così facendo si adeguano al livello e quando vengono finalmente portati in Serie A si scontrano con calciatori già maturi senza aver acquisito le giuste competenze».

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