Pagina 1 | Chiedimi chi era Scirea, 35 anni senza Gaetano: perché ci manca tantissimo

Chiedimi chi era Scirea, 35 anni senza Gaetano: perché ci manca tantissimo© Juventus FC via Getty Images

Scirea era uno che diceva: «Io so che tanti problemi non ci toccano perché guadagniamo bene. Siamo dei privilegiati. Ma so anche di essere sempre stato lo Scirea di oggi, oggi che sono titolare della Juve e della Nazionale. Non vado in giro a testa alta perché sono... Scirea. Il mio scopo è anche di rispettare e amare chi mi ha dato tutto questo, i tifosi per primi». Perché parlava pochissimo, ma non lo faceva mai inutilmente. Parlava sufficientemente poco da essere il migliore amico di Dino Zoff, con cui condivideva la camera dei ritiri che Marco Tardelli chiamava «la Svizzera», per la pace che vi regnava sempre. Si sono ritirati lì, nella “Svizzera”, la notte in cui sono diventati campioni del mondo. Avevano alzato nel cielo di Madrid la Coppa del Mondo e tre ore dopo - il resto della squadra in discoteca - loro due erano da soli, nella loro stanza, ovviamente in silenzio, con un bicchiere di vino e una sigaretta a testa. «Per assaporare meglio quello che avevamo fatto».

La dignità di Scirea

Scirea ero uno che diceva: «Ero ragazzino, dalle due alle otto stavo all’oratorio, oppure sui prati, facendo le porte con i libri, sempre a giocare. Che belle sudate, che giorni bellissimi. Sono bellissimi anche questi, nei quali gioco con la Juventus e la Nazionale, ma facevo di quei gol sui prati». Perché non si era mai dimenticato da dove veniva, Gaetano Scirea da Cernusco sul Naviglio, figlio di Stefano e Giuditta, operai alla Pirelli, dotati di quella dignità composta di chi mantiene la famiglia con la sua fatica, trasmettendo i valori senza troppi discorsi, ma con una sorta di osmosi morale. Quei valori che hanno accompagnato Gaetano per tutta la sua vita in campo e fuori, sollevandolo dalla mediocrità e facendone brillare ancora di più il talento. Quella che molti scambiavano per timidezza era in realtà sobrietà, senso della misura e consapevolezza delle circostanze.

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Scirea: profumo di calcio

In un’epoca in cui il calciatore vede nell’esagerazione quasi un dovere professionale e vive disconnesso dalla realtà, uno Scirea sarebbe impensabile. Cinquant’anni fa era comunque un’eccezione, ma più plausibile uno che tornando a casa all’alba, dopo una festa in discoteca per lo scudetto appena vinto, incrocia un gruppo di operai che aspetta il tram per andare in fabbrica e si vergogna, cammina rasente il muro, il capo chinato dai sensi di colpa: «Ho ripensato a mio papà e mia mamma, che tante volte si sono svegliati all’alba per andare a fare fatica in catena di montaggio e io ero lì che tornavo da una discoteca dopo aver fatto baldoria tutta la notte». Scirea era uno che diceva: «Ho vinto tutto, ma non mi sento arrivato. Lo sport, il calcio ha questa magia di ricominciare ogni anno da capo. A inizio stagione quello che hai fatto fino a quel momento si cancella, non conta più, non ti aiuta a fare altri gol». Perché Scirea sapeva di sport in modo profondo e ne viveva la purezza intellettuale, il senso del gioco, in cui tutto si azzera, ma anche la serietà che merita ogni sfida. Ha affrontato il calcio con la testa di un operaio e con la classe di un grande artista.

Il ricordo di Platini e Tardelli

Scirea era uno che non diceva niente se non c’era niente da dire. «Parlava con i suoi silenzi», ha detto Michel Platini che adorava Gaetano, forse per la stessa ragione di Marco Tardelli: «Un uomo straordinariamente sereno in ogni situazione. Era riflessivo e profondo, ordinato in campo e nella vita. Era impossibile litigare con lui, qualsiasi possibile scontro si scioglieva in dialogo, lui era davvero un essere molto speciale».
Scirea era uno che oggi servirebbe come l’aria da respirare, per ascoltarlo o capire quando si fa più bella figura a stare zitti. Ma il destino ce lo ha portato via 35 anni fa, in un 3 settembre come questo, solo molto molto più triste. Così dobbiamo accontentarci di ricordarlo, che comunque ci ha lasciato tantissimo da rivedere, riascoltare, rileggere. E con la nostalgia, aumenta anche un po’ la nostra saggezza.

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Scirea era uno che diceva: «Io so che tanti problemi non ci toccano perché guadagniamo bene. Siamo dei privilegiati. Ma so anche di essere sempre stato lo Scirea di oggi, oggi che sono titolare della Juve e della Nazionale. Non vado in giro a testa alta perché sono... Scirea. Il mio scopo è anche di rispettare e amare chi mi ha dato tutto questo, i tifosi per primi». Perché parlava pochissimo, ma non lo faceva mai inutilmente. Parlava sufficientemente poco da essere il migliore amico di Dino Zoff, con cui condivideva la camera dei ritiri che Marco Tardelli chiamava «la Svizzera», per la pace che vi regnava sempre. Si sono ritirati lì, nella “Svizzera”, la notte in cui sono diventati campioni del mondo. Avevano alzato nel cielo di Madrid la Coppa del Mondo e tre ore dopo - il resto della squadra in discoteca - loro due erano da soli, nella loro stanza, ovviamente in silenzio, con un bicchiere di vino e una sigaretta a testa. «Per assaporare meglio quello che avevamo fatto».

La dignità di Scirea

Scirea ero uno che diceva: «Ero ragazzino, dalle due alle otto stavo all’oratorio, oppure sui prati, facendo le porte con i libri, sempre a giocare. Che belle sudate, che giorni bellissimi. Sono bellissimi anche questi, nei quali gioco con la Juventus e la Nazionale, ma facevo di quei gol sui prati». Perché non si era mai dimenticato da dove veniva, Gaetano Scirea da Cernusco sul Naviglio, figlio di Stefano e Giuditta, operai alla Pirelli, dotati di quella dignità composta di chi mantiene la famiglia con la sua fatica, trasmettendo i valori senza troppi discorsi, ma con una sorta di osmosi morale. Quei valori che hanno accompagnato Gaetano per tutta la sua vita in campo e fuori, sollevandolo dalla mediocrità e facendone brillare ancora di più il talento. Quella che molti scambiavano per timidezza era in realtà sobrietà, senso della misura e consapevolezza delle circostanze.

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