Schillaci e quella faccia neorealista: perché è così importante per l’Italia

Vinse il Mondiale senza alzare la Coppa, ma entrando nelle vite di un Paese in cui terrone non era più un insulto

Ha vinto il Mondiale, anche se la coppa l’hanno data ai tedeschi e, sì, se vai a vedere sull’albo d’oro, sulla riga del 1990 c’è scritto Germania. Ma quella è stata l’estate di Totò Schillaci, Italia 90 il “suo” Mondiale e la dolcezza di quei ricordi è la nostra quinta stella. Schillaci, infatti, è stato più di un calciatore. Anzi, come calciatore, in fondo, ha fatto un’apparizione fugace sul grande palcoscenico: non era un fenomeno, ma ha concretamente raccolto molto meno di quanto meritasse il suo talento, a meno da non considerare trofei la fama globale per un annetto o giù di lui e un bilocale, vista anima, nella memoria collettiva del Paese. Perché, appunto, Schillaci è stato qualcosa di più di un calciatore.

Totò Schillaci icona dell'italianità

È stata un’icona dell’italianità, con i suoi sguardi stralunati che esplodevano in quella faccia neorealista più vera del vero. Hanno spesso raccontato (e la racconteranno) la favola dell’uomo del Sud che arriva alla Juventus e riscatta i meridionali emigrati per lavorare, ma è un’analisi troppo facile e storicamente approssimativa. Quello era, semmai, Pietro Anastasi, che a Torino ci era arrivato nel 1968. Schillaci ci sbarca ventuno anni dopo, quando il fenomeno migratorio era finito, azzerato o quasi dalle crisi dell’auto e dall’apertura delle fabbriche al Sud. Schillaci è senza dubbio l’immagine del meridionale, ne incarna l’umanità straripante e il carattere, ne porta addosso i colori in tutte le loro sfumature, ma non c’è una meridionalità da riscattare nel Nord in cui approda agli inizi degli Anni 90. E quando il decennio sta per finire, Schillaci entra in un fi m generazionale come “Tre uomini e una gamba” citato come "il gran visir di tutti i terroni" e tutti ridono, nessuno si offende, perché perfino la parola terrone non è più un insulto. Insomma no, Schillaci non è il meridionale che è venuto al Nord a riscattare i meridionali, è anzi forse uno di primi simboli di un’Italia che non si spacca sulle latitudini e si abbraccia senza retropensieri per i suoi gol.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Totò Schillaci, "l'italiano vero"

È l’"italiano vero", quello di Toto Cotugno e Carlo Verdone, uno stereotipo forse fin troppo marcato di alcuni dei nostri tratti comuni, ma innegabilmente uno di noi, uno nel quale trovare almeno una cosa nella quale specchiarsi: la genialità estemporanea, la capacità di reagire nelle situazioni difficili, la furbizia, il talento puro, la generosità, il coraggio. E anche nei difetti, per carità. Schillaci, quindi, è un pezzettino della nostra storia di popolo, lui che dal popolo veniva e al popolo è sempre appartenuto, pure quando in qualsiasi angolo del mondo avevano visto i suoi gol e, chiunque di noi andasse all’estero, si sentiva dire: "Italiano? Schillaci!". E chi ce lo diceva, magari sorridendo, non sapeva quanto era vero. Ci hai rappresentato degnamente, Schillaci, e ci hai regalato ricordi intensi come quelli che hanno scritto una paginetta di storia senza sapere di farlo, quindi in modo ancora più sincero e naturale. Sì, tutto questo vale un Mondiale, anche se non c’è la coppa. Chissenefrega della Coppa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Ha vinto il Mondiale, anche se la coppa l’hanno data ai tedeschi e, sì, se vai a vedere sull’albo d’oro, sulla riga del 1990 c’è scritto Germania. Ma quella è stata l’estate di Totò Schillaci, Italia 90 il “suo” Mondiale e la dolcezza di quei ricordi è la nostra quinta stella. Schillaci, infatti, è stato più di un calciatore. Anzi, come calciatore, in fondo, ha fatto un’apparizione fugace sul grande palcoscenico: non era un fenomeno, ma ha concretamente raccolto molto meno di quanto meritasse il suo talento, a meno da non considerare trofei la fama globale per un annetto o giù di lui e un bilocale, vista anima, nella memoria collettiva del Paese. Perché, appunto, Schillaci è stato qualcosa di più di un calciatore.

Totò Schillaci icona dell'italianità

È stata un’icona dell’italianità, con i suoi sguardi stralunati che esplodevano in quella faccia neorealista più vera del vero. Hanno spesso raccontato (e la racconteranno) la favola dell’uomo del Sud che arriva alla Juventus e riscatta i meridionali emigrati per lavorare, ma è un’analisi troppo facile e storicamente approssimativa. Quello era, semmai, Pietro Anastasi, che a Torino ci era arrivato nel 1968. Schillaci ci sbarca ventuno anni dopo, quando il fenomeno migratorio era finito, azzerato o quasi dalle crisi dell’auto e dall’apertura delle fabbriche al Sud. Schillaci è senza dubbio l’immagine del meridionale, ne incarna l’umanità straripante e il carattere, ne porta addosso i colori in tutte le loro sfumature, ma non c’è una meridionalità da riscattare nel Nord in cui approda agli inizi degli Anni 90. E quando il decennio sta per finire, Schillaci entra in un fi m generazionale come “Tre uomini e una gamba” citato come "il gran visir di tutti i terroni" e tutti ridono, nessuno si offende, perché perfino la parola terrone non è più un insulto. Insomma no, Schillaci non è il meridionale che è venuto al Nord a riscattare i meridionali, è anzi forse uno di primi simboli di un’Italia che non si spacca sulle latitudini e si abbraccia senza retropensieri per i suoi gol.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Loading...
1
Schillaci e quella faccia neorealista: perché è così importante per l’Italia
2
Totò Schillaci, "l'italiano vero"