Bobby Charlton, l'inglese più forte dopo la mamma

Addio al mito dello United e dell'Inghilterra, simbolo della vittoria ai Mondiali 1966. Attaccante atipico, la sua epica storia parte dalla madre 'Cissie'
Bobby Charlton, l'inglese più forte dopo la mamma© Getty Images

Bobby Charlton, morto ieri a 86 anni compiuti da poco, è stato uno dei calciatori inglesi più forti della storia, ma aveva rischiato di non essere nemmeno il migliore della sua famiglia. La rivalità interna avrebbe potuto essere non quella con il fratello maggiore Jack o con il padre Bob, ma con la madre Elizabeth, detta ‘Cis’ o ‘Cissie’, diminutivo di ‘Sister’: Cissie di cognome faceva Milburn, e la sua era la famiglia più forte del nordest calcistico inglese, sublimata nella figura di Jackie, tuttora secondo solo a Alan Shearer nella classifica dei migliori realizzatori del Newcastle United.

Charlton, il calcio trasmesso della madre

Cissie - lo confessò anni dopo senza vergognarsene - maledì mille e mille volte di essere nata donna: fanatica di calcio, da bambina aveva voluto come regali di Natale scarpe da gioco e palloni e nelle partitelle sulla fredda spiaggia di Newbiggin, non lontana da casa, aveva mostrato un tocco e un coraggio sprecati, in tempi in cui il calcio femminile di fatto non esisteva. Bobby e Jack presero da lei, non dal padre, al quale il football non interessava minimamente: il suo soprannome del resto era ‘Bob the boxer’, e proprio vincendo una piccola somma di denaro in un combattimento (perso) alla fiera del paese, Ashington, si era potuto permettere l’anello di fidanzamento per Cissie, sposandola poi per andare ad abitare in una modestissima casa lungo la Laburnum Terrace, con toilette separata, una capanna sul retro, che dava sulla… Milburn Road. Uno di quegli scenari, caldi e coccolosi ma al limite dello squallido, che chi ha visto il film Billy Elliot riconoscerebbe al primo colpo.

Lo United quasi per caso

Bobby dunque partì da lì, dalla passione della madre, per andare a conquistare il mondo, in tutti i sensi: dopo la vittoria dei Mondiali 1966 Charlton divenne il calciatore inglese più famoso del pianeta, il primo nome che veniva in mente ai residenti dei paesi più disparati ogni volta che capitava loro di fronte, e si faceva riconoscere, un suo connazionale. Un po’ come avveniva per noi italiani tra anni Ottanta e anni Novanta, col ‘Paolo Rossi!’ che aveva sostituito il ‘ciao’ negli approcci. Charlton rappresentò l’Inglesità, un’Inglesità misurata ma passionale, immersa nel fair play (due sole ammonizioni e un’espulsione in oltre 700 partite) ma capace di farsi rispettare, ambasciatore involontario di una nazione prima ancora che dell’unica squadra della sua vita, il Manchester United, arrivata quasi per caso: delusissimo dall’esito negativo di una partitella in cui sperava di essere preso nel settore giovanile del Sunderland, il 9 febbraio 1953, a Cissie che cercava di consolarlo disse "vada a quel paese il Sunderland, andrò dalla prima squadra che mi vuole". Tempo un paio di minuti, e a madre e figlio si avvicinò Joe Armstrong, che proprio lo United aveva inviato a seguire la partita dopo aver ricevuto una lettera di segnalazione di Stuart Hemingway, preside del liceo di Bobby, che tra l’altro era stato originariamente scelto da una scuola più rinomata ma dedita solo al rugby prima che la solita Cissie muovesse mari e monti per far spostare il figlio in quella giusta.

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Charlton, la tragedia di Monaco

Arrivato dunque allo United per caso, Charlton ne divenne poco alla volta il simbolo, specialmente nel dolore seguito alla tragedia di Monaco, a cui sopravvisse: sbalzato, ancora allacciato al seggiolino, a 40 metri dalle lamiere dell’aereo, rimase in ospedale una settimana prima di essere rimpatriato e riprendere poco alla volta. Quell’episodio, comprensibilmente, lo segnò per tutta la vita, una miscela di puro dolore e di quel senso di colpa irrazionale che a volte prende i sopravvissuti ad una tragedia. Taciturno lo era sempre stato, specialmente rispetto al fratello Jack e alla madre, ma quel dramma lo rese introverso al limite della timidezza, spesso scambiata per altezzosità, percezione che si scioglieva non appena gli si rivolgeva la parola e quell’Inglesità cortese riaffiorava.

Attaccante atipico e la United Trinity

Sempre col numero 9 sulla schiena, fu però un attaccante atipico, seconda punta o centrocampista offensivo con un tiro potentissimo, doti sublimate da Matt Busby nello United e da Alf Ramsey in quella Nazionale campione del mondo con un modulo inedito, Bobby dietro alle due punte Roger Hunt e Geoff Hurst (unico della rosa 1966 ancora in vita, ora). Wembley, dove vinse anche la Coppa dei Campioni 1968, rappresentava curiosamente un simbolico ritorno a casa: alcune delle prime partitelle con i bambini del vicinato le aveva giocate in un prato chiamato Wembley Fields, lì dove, dopo la vittoria mondiale e un cambio di destinazione, comprò poi casa a madre e padre. Lo United campione d’Europa 1968 rappresentò l’inizio della parte finale della sua carriera, perché di quella squadra era ormai vero protagonista George Best, che aveva nove anni di meno, troppo più charme e troppi più capelli per l’epoca storica che stava nascendo. Restano i ricordi, la classe, la dignità, salvata dalla sparizione dalla vita pubblica dopo la diagnosi di demenza senile del 2020, e per i numerosi visitatori di Old Trafford la statua che lo ritrae abbracciato a Best e Denis Law, a sua volta colpito due anni fa da una malattia degenerativa: è la United Trinity, la Santissima Trinità dello United, e pazienza se nei primi Anni 70 i rapporti tra i tre furono molto poco cordiali. Accadde anche, da un certo punto in poi, con Jack e con la madre, con cui ruppe i rapporti nel 1992 per non riallacciarli più, nemmeno alla sua morte, avvenuta nel 1996.

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Bobby Charlton, morto ieri a 86 anni compiuti da poco, è stato uno dei calciatori inglesi più forti della storia, ma aveva rischiato di non essere nemmeno il migliore della sua famiglia. La rivalità interna avrebbe potuto essere non quella con il fratello maggiore Jack o con il padre Bob, ma con la madre Elizabeth, detta ‘Cis’ o ‘Cissie’, diminutivo di ‘Sister’: Cissie di cognome faceva Milburn, e la sua era la famiglia più forte del nordest calcistico inglese, sublimata nella figura di Jackie, tuttora secondo solo a Alan Shearer nella classifica dei migliori realizzatori del Newcastle United.

Charlton, il calcio trasmesso della madre

Cissie - lo confessò anni dopo senza vergognarsene - maledì mille e mille volte di essere nata donna: fanatica di calcio, da bambina aveva voluto come regali di Natale scarpe da gioco e palloni e nelle partitelle sulla fredda spiaggia di Newbiggin, non lontana da casa, aveva mostrato un tocco e un coraggio sprecati, in tempi in cui il calcio femminile di fatto non esisteva. Bobby e Jack presero da lei, non dal padre, al quale il football non interessava minimamente: il suo soprannome del resto era ‘Bob the boxer’, e proprio vincendo una piccola somma di denaro in un combattimento (perso) alla fiera del paese, Ashington, si era potuto permettere l’anello di fidanzamento per Cissie, sposandola poi per andare ad abitare in una modestissima casa lungo la Laburnum Terrace, con toilette separata, una capanna sul retro, che dava sulla… Milburn Road. Uno di quegli scenari, caldi e coccolosi ma al limite dello squallido, che chi ha visto il film Billy Elliot riconoscerebbe al primo colpo.

Lo United quasi per caso

Bobby dunque partì da lì, dalla passione della madre, per andare a conquistare il mondo, in tutti i sensi: dopo la vittoria dei Mondiali 1966 Charlton divenne il calciatore inglese più famoso del pianeta, il primo nome che veniva in mente ai residenti dei paesi più disparati ogni volta che capitava loro di fronte, e si faceva riconoscere, un suo connazionale. Un po’ come avveniva per noi italiani tra anni Ottanta e anni Novanta, col ‘Paolo Rossi!’ che aveva sostituito il ‘ciao’ negli approcci. Charlton rappresentò l’Inglesità, un’Inglesità misurata ma passionale, immersa nel fair play (due sole ammonizioni e un’espulsione in oltre 700 partite) ma capace di farsi rispettare, ambasciatore involontario di una nazione prima ancora che dell’unica squadra della sua vita, il Manchester United, arrivata quasi per caso: delusissimo dall’esito negativo di una partitella in cui sperava di essere preso nel settore giovanile del Sunderland, il 9 febbraio 1953, a Cissie che cercava di consolarlo disse "vada a quel paese il Sunderland, andrò dalla prima squadra che mi vuole". Tempo un paio di minuti, e a madre e figlio si avvicinò Joe Armstrong, che proprio lo United aveva inviato a seguire la partita dopo aver ricevuto una lettera di segnalazione di Stuart Hemingway, preside del liceo di Bobby, che tra l’altro era stato originariamente scelto da una scuola più rinomata ma dedita solo al rugby prima che la solita Cissie muovesse mari e monti per far spostare il figlio in quella giusta.

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