“L’ingegneria meccanica, l'infarto e l’effetto Sinner. Ha avuto ragione…"

Intervista a Carlos Bernardes, il Grande Fratello del tennis, il giudice arbitro che ha visto in presa diretta più di 8000 partite: “L’era dei big 3 è irripetibile”

Thiem, Kerber, Muguruza, Murray, Nadal. Il 2024 ha visto l’ultimo ballo di alcuni grandi campioni del tennis, ma anche di una figura leggendaria come Carlos Bernardes, uno degli arbitri più famosi, amati e riconosciuti in tutto il mondo. Oltre 8000 partite arbitrate, compresi 24 dei 29 n. 1 Atp, in cui ha potuto assistere "dal miglior posto di tutto lo stadio" alle rivalità più affascinanti della storia. Da Sampras e Agassi, passando per Federer, Nadal, Djokovic e Murray, fino ad arrivare agli attuali Alcaraz e Sinner. Proprio Jannik è stato uno degli ultimi giocatori arbitrati da Carlos in carriera, nella finale delle Atp Finals, quando l’attuale n. 1 del mondo ha dedicato al brasiliano un bell’omaggio durante la premiazione. Gentilissimo, con una parola buona per tutti e il sorriso di chi è veramente felice, Bernardes vive da anni vicino a Bergamo con la moglie Francesca - giudice di linea Atp - e l’inseparabile cagnolino 16enne, che ormai altro non fa che “mangiare e dormire, mangiare e dormire”.

 

Carlos, com’è nata la sua storia con il tennis? «È una storia divertente. La prima partita che ho visto in tv è stata a Wimbledon, poi avevo un amico che aveva un paio di racchette e con cui, in un piccolo club di São Paulo, andavamo a giocare la domenica. Avevamo 13-14 anni, scavalcavamo le recinzioni e passavamo tutto il giorno lì. Poi a 15 anni, quando è mancato mio papà, ho iniziato a fare il maestro in quel club».

 

E com’è finito a fare l’arbitro? «In Brasile in quel periodo c’erano tantissimi tornei. Un giorno lessi su un giornale che erano necessari 130 giudici di linea per la Fed Cup a São Paulo, a cui avrebbero partecipato anche Martina Navratilova e Chris Evert. Quello è stato il mio primo contatto con il tennis professionistico. Mi è piaciuto molto e ho continuato anche durante l’università, quando studiavo ingegneria meccanica, fino a quando il direttore del club dove insegnavo mi mise davanti a un bivio. Stavo viaggiando molto e dovevo scegliere se fare il maestro o l’arbitro. Ovviamente scelsi di fare l’arbitro: viaggiavo 23 o 24 settimane l’anno, mi piaceva tanto».

 

Con l’arrivo della tecnologia è cambiato molto il lavoro dell’arbitro. Come ha vissuto la transizione? «Ho visto di recente che a Riyadh c’è stata una gara di boxe arbitrata parzialmente dall’intelligenza artificiale. Anche nel calcio si sta andando in questa direzione, si fischiano fuorigioco per un paio di millimetri. Non è una questione che riguarda solo il tennis: si sta perfezionando sempre più lo sport in generale, fino quasi a fare a meno della componente umana».

 

In futuro potrebbe scomparire la figura del giudice di sedia? O magari verrà “accorpata" a quella del supervisor? «Secondo me sì. Un esempio: tutti i giocatori parlano lingue diverse. Può essere che un giorno si userà un microfono intelligente che andrà in giro per il campo a captare se dicono parolacce nella loro lingua madre».

 

 

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Le partite più belle e il giocatore più difficile

A proposito, come funziona in quel caso? Siete “attrezzati”? «Sì, abbiamo una lista di parolacce in tutte le lingue che dobbiamo conoscere. Comunque l’evoluzione della tecnologia non riguarda soltanto il tennis, che negli ultimi anni ha già sollevato il giocatore da un pensiero importante, cioè quello di capire se la palla è buona o fuori. Dall’altra parte, però, svanisce l’interazione tra tennista e arbitro, il cui ruolo è quasi confinato alla sola squalifica di un giocatore».

 

Le piacerebbe continuare nel tennis? «Sì, mi piacerebbe fare ancora qualcosa, magari formando nuovi arbitri perché a livello Challenger ci sarà ancora tanto bisogno dei giudici di sedia. Lo sport fa parte della mia vita da quando ho 15 anni: tutto ciò che ho conquistato, visto e conosciuto è stato grazie al tennis».

 

Le cinque partite più emozionanti della sua carriera? «È davvero difficile dirlo. Intanto, direi la finale di Wimbledon 2011 tra Nadal e Djokovic. Era il primo torneo che avevo visto in tv, essere lì ad arbitrare la finale non mi sembrava vero. Anche gli arbitri sono invitati al ballo di fine torneo: è speciale, Wimbledon per me è il torneo più bello. Poi la mia prima finale Slam, Federer-Roddick allo US Open 2006; un match tra Ivanisevic e Becker, due dal carisma impressionante, a Spalato, la terra di Goran; una rimonta di Agassi su Blake a New York da due set di svantaggio, quando Andre vinse 7-6 al quinto. E la quinta è davvero difficile, potrei metterne tante: scelgo Nadal-Tsitsipas a Barcellona 2021, quasi quattro ore, una delle mie prime partite dopo l’attacco cardiaco a Melbourne».

 

Il giocatore più difficile da arbitrare? «Non ci sono giocatori difficili, ma situazioni difficili. Dipende molto da come va la partita, che può complicarsi anche se in campo ci sono giocatori tranquilli».

 

Per esempio? «Parlo sempre di un match di Coppa Davis tra Cile e Argentina, nel 2000. Giocavano Massu e Zabaleta, due piuttosto tranquilli. C’erano 15.000 persone allo stadio, ma era un pubblico calcistico. A un certo punto, qualcuno ha lanciato qualcosa in campo: Zabaleta è andato a raccoglierlo e a consegnarlo al raccattapalle, ma il pubblico pensava che ci stesse litigando. Hanno iniziato a lanciare in campo pietre, seggiolini e qualunque cosa avessero in mano, costringendo i giocatori a tornare negli spogliatoi dove c’erano persino i carabinieri e il papà di Zabaleta con la testa tagliata. Io non so come non mi sono fatto niente, ma è stato impressionante. Doveva essere una partita tranquilla, il Cile era favorito, invece si è trasformata in un inferno. In 40 anni è stata la cosa più impressionante che ho visto su un campo da tennis».

 

 

 

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I big 3, Sinner e l'Italia

Frequentando spesso i giocatori si creava poi un rapporto più intenso con alcuni di loro? «Sicuramente quando vedi così tanto delle persone un rapporto si crea. Ho arbitrato Nadal per la prima volta a Maiorca quando aveva 16 anni, ma anche Djokovic, Federer, Murray o Sinner li ho visti tantissimo. Poi certo, non è che uscissi a cena con loro. In passato era diverso: giravano meno soldi, era una versione un po’ più romantica del tennis. In un Challenger mi è anche capitato di fare da sparring a un giocatore prima della finale che avrei arbitrato nel pomeriggio: oggi sarebbe impossibile. Un’altra volta, sempre in Brasile, io e un altro arbitro abbiamo giocato un match d’allenamento contro una coppia di doppisti che ci facevano partire da 40 in tutti i game: abbiamo vinto 7-6 6-2».

 

Com’erano i big 3? «Quello che facevano loro era impressionante. Federer, Nadal e Djokovic erano persone diverse con stili diversi, ma è stato molto speciale viverli da vicino. La loro epoca, con anche Murray, Wawrinka, Del Potro, Ferrer e molti altri, è stata la più bella della storia del tennis. Ho vissuto anche gli anni di Sampras e Agassi, ma non sono stati così intensi. E non credo nemmeno che la generazione attuale, quella di Sinner e Alcaraz, possa reggere i ritmi dei big 3, che sono stati 20 anni al top. Oggi va tutto troppo veloce, non credo riusciranno a catturare il pubblico così a lungo come hanno fatto Roger, Rafa e Nole».

 

Qual è stata la prima impressione che le ha fatto Sinner? «Jannik mi è stato presentato per la prima volta dalla moglie di Riccardo Piatti, a Montecarlo, era ancora un ragazzino. Lei mi ha detto subito che un giorno avrei arbitrato quel ragazzino magrolino con i capelli rossi perché giocava benissimo a tennis. Ha avuto ragione. Il livello a cui Sinner ha portato il tennis in Italia è impressionante. Si parla di tennis alla posta, al telegiornale o in programmi televisivi generalisti, sui social. Ricordo com’era Torino al primo anno di Finals e com’era quest’anno: Jannik ha avvicinato al tennis una quantità pazzesca di gente. Spero che l’Italia riesca a sfruttare al massimo questo momento».

 

Quanto le piace l’Italia? «Tantissimo. Chiedo sempre a mia moglie perché gli italiani viaggiano all’estero: questa terra è bellissima. E poi c’è la cucina, si mangia troppo bene in Italia. Io ho conosciuto moltissimi posti nel mondo, adoro il Giappone, Parigi, Ne w York, ma qui è diverso. Ho visto più posti in Italia che in Brasile, è tutto bellissimo, una rivelazione continua».

 

 

 

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Thiem, Kerber, Muguruza, Murray, Nadal. Il 2024 ha visto l’ultimo ballo di alcuni grandi campioni del tennis, ma anche di una figura leggendaria come Carlos Bernardes, uno degli arbitri più famosi, amati e riconosciuti in tutto il mondo. Oltre 8000 partite arbitrate, compresi 24 dei 29 n. 1 Atp, in cui ha potuto assistere "dal miglior posto di tutto lo stadio" alle rivalità più affascinanti della storia. Da Sampras e Agassi, passando per Federer, Nadal, Djokovic e Murray, fino ad arrivare agli attuali Alcaraz e Sinner. Proprio Jannik è stato uno degli ultimi giocatori arbitrati da Carlos in carriera, nella finale delle Atp Finals, quando l’attuale n. 1 del mondo ha dedicato al brasiliano un bell’omaggio durante la premiazione. Gentilissimo, con una parola buona per tutti e il sorriso di chi è veramente felice, Bernardes vive da anni vicino a Bergamo con la moglie Francesca - giudice di linea Atp - e l’inseparabile cagnolino 16enne, che ormai altro non fa che “mangiare e dormire, mangiare e dormire”.

 

Carlos, com’è nata la sua storia con il tennis? «È una storia divertente. La prima partita che ho visto in tv è stata a Wimbledon, poi avevo un amico che aveva un paio di racchette e con cui, in un piccolo club di São Paulo, andavamo a giocare la domenica. Avevamo 13-14 anni, scavalcavamo le recinzioni e passavamo tutto il giorno lì. Poi a 15 anni, quando è mancato mio papà, ho iniziato a fare il maestro in quel club».

 

E com’è finito a fare l’arbitro? «In Brasile in quel periodo c’erano tantissimi tornei. Un giorno lessi su un giornale che erano necessari 130 giudici di linea per la Fed Cup a São Paulo, a cui avrebbero partecipato anche Martina Navratilova e Chris Evert. Quello è stato il mio primo contatto con il tennis professionistico. Mi è piaciuto molto e ho continuato anche durante l’università, quando studiavo ingegneria meccanica, fino a quando il direttore del club dove insegnavo mi mise davanti a un bivio. Stavo viaggiando molto e dovevo scegliere se fare il maestro o l’arbitro. Ovviamente scelsi di fare l’arbitro: viaggiavo 23 o 24 settimane l’anno, mi piaceva tanto».

 

Con l’arrivo della tecnologia è cambiato molto il lavoro dell’arbitro. Come ha vissuto la transizione? «Ho visto di recente che a Riyadh c’è stata una gara di boxe arbitrata parzialmente dall’intelligenza artificiale. Anche nel calcio si sta andando in questa direzione, si fischiano fuorigioco per un paio di millimetri. Non è una questione che riguarda solo il tennis: si sta perfezionando sempre più lo sport in generale, fino quasi a fare a meno della componente umana».

 

In futuro potrebbe scomparire la figura del giudice di sedia? O magari verrà “accorpata" a quella del supervisor? «Secondo me sì. Un esempio: tutti i giocatori parlano lingue diverse. Può essere che un giorno si userà un microfono intelligente che andrà in giro per il campo a captare se dicono parolacce nella loro lingua madre».

 

 

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