Vi ricordate quando si faceva la ola se un italiano arrivava tipo nei quarti al torneo di Firenze o di San Marino? Io sì. Oppure quando si stappava una bottiglia se il nostro miglior tennista al primo turno di uno Slam beccava un pippone e si poteva sperare di non tornare subito tutti a casa e non avere più nessuno per cui tifare fin dal secondo? Io sì. O ancora vi ricordate quando in Davis ci si aggrappava disperati al turborovescio di Paolino Cané e alle telecronache di Bisteccone o, in tempi più recenti, al braccio strepitoso di Fognini che però troppo spesso si rivelava poco sintonizzato con la testa? Io ovvio che sì. E ho cinquantacinque anni, non centodieci. Poi chiaro, ci sono anche i giovani, quelli che magari negli ultimi due o tre anni si sono accostati al tennis pensando che fosse normale avere quattro italiani tra i primi 20 al mondo, con Berrettini, Sonego e Musetti a ingrassare le fila di un movimento in crescita collettiva. Ma per chi non è più un ragazzino dici già solo Fognini e pensi che con lui, capace di battere Nadal sulla terra, assurto tra un colpo di genio e uno sbrocco al numero 9 del ranking Atp, quattro/cinque anni fa, ci sembrava tornata l’età dell’oro. Peccato che Fabio ne avesse già 32, di anni. Perché uno con quel talento lì forse non l’abbiamo nemmeno oggi. Oggi che Jannik ne ha 22 e va a giocarsi il primo titolo Slam. C’era una volta il tennis italiano senza Sinner. Sembra una vita fa, eppure era l’altro ieri.
Da Berrettini a Jannik
Vero, la prima botta d’entusiasmo l’ha data Berrettini - aitante, potente, bello, talentuoso e finalista a Wimbledon, trionfatore nel salotto esclusivo del Queen’s - ma poi il fisico e il destino gli hanno riservato un altro genere di botte, dalle quali fatica a riprendersi. Per carità, in precedenza abbiamo avuto le ragazze: la Schiavone regina di Parigi, la Pennetta a New York, gli arabeschi della Vinci, perfino gli sfibranti (per le avversarie) palleggi della Errani. Però, se si parla di maschietti, di volta in volta avevamo sognato la svolta, il salto di qualità vero, con Cancellotti, con Camporese, con Gaudenzi, con Volandri, con Seppi, a tratti pure con Starace e l’encomiabile Lorenzi, ci siamo illusi con Cecchinato, ci siamo pasciuti di speranze per gli exploit di Caratti e Furlan alla scuola di mastro Piatti, ma ci è sempre mancato il soldo per fare la lira: tutti ottimi giocatori, sia chiaro, a tratti tra i 20/30 migliori del circuito, ma la verità è che alla fine della fiera i veri nerd della racchetta preferivano trastullarsi con l’estetica delle affettate di Cipolla, consolarsi con pronostici illusori sullo junior di turno, per poi immergersi a notte fonda nei circoletti rossi di Tommasi & Clerici. A rimembrare i bei tempi andati di Panatta, i doppi con Bertolucci, le maratone di Barazzutti e gli exploit di Zugarelli. E magari i gonnellini della Pericoli, passando dalle gambe di Steffi alla manina di Venus. La Davis era la rievocazione annuale del Cile e delle magliette rosse anti Pinochet, o un docufilm. In realtà ci sovveniva più l’invereconda disfatta di Maceiò, con i crampi di Pescosolido e i brasiliani che a confronto dei nostri sembravano Pelé della racchetta. I fantasmi dei neozelandesi e dei finnici