Olimpiadi 2024, il fuoco sacro da Ercole a Merini

Dei, semidei, l’eroe Pelope tramandato da Pindaro e la leggenda di Maratona: nella meravigliosa storia dei Giochi non c’è nulla di banale

Erano e rimarranno i giochi più illustri del mondo classico e di quello moderno. Pare si debba a Luciano di Samosata la asserzione che fece storia. Il racconto accreditava parole pronunziate in questa forma: «Abbiamo vinto…», in un fil di voce, appena distinguibile, assegnato al messaggero. Attorno gli astanti, tra urla e sgomento, dovettero sollevare al cielo il corpo inerte, madido di sudore. La frase la si attribuì al soldato di nome Feidippo (altri dicono Fidippide o Filippide), si è concordi nell’indicare che fu nel 490 a.C., che corse fino ad Atene, in ambasceria di vittoria. Pronunziate quelle parole, l’uomo stremato cadde sulla polvere e spirò.

La leggenda di Maratona

Così la leggenda di Maratona fu inserita nel 1896, tra le discipline delle prime Olimpiadi moderne. Remotissimo pensiero. Fabula o leggenda, secondo tradizione, le Olimpiadi furono ideate da un semidio: Ercole e la vicenda si lega alla quinta delle celebri “Fatiche”. Si narra che dopo aver ucciso l’avarissimo e menzognero re Augia di Elide. Per espiare dinnanzi a Zeus, Ercole innalzò in Olimpia più altari e, proprio in ragione dell’accaduto, piantò “il glauco ulivo” (kallistephanos), proveniente dal paese degli Iperbòrei, dando vita ai Giochi. Delimitò uno “stadio”, con una sorta di pista di spropositata lunghezza, pari ai seicento piedi del semidio, per raggiungere la dimensione “inverosimile” di 192,27 metri. Nelle gare disputate per l’occasione, afferma Pausania, s’imposero Castore (corsa), Polluce (pugilato), Iolao (corsa dei carri), Iasio (corsa dei cavalli) e lo stesso Ercole (lotta e pancrazio).

La storia delle Olimpiadi

No, le Olimpiadi non hannno nulla di banale. Altra magnifica “favola” riporta a Pindaro, secondo il quale fondatore dei Giochi fu l’eroe lidio Pelope, da cui prese nome il Peloponneso. Antenato di Ercole, figlio di Tantalo, nonno di Agamennone e Menelao, Pelope avrebbe secondo tradizione organizzato i Giochi in onore di Zeus, dopo la sua vittoria su Enomao, re di Pisa (presso Olimpia). Era padre della bellissima Ippodamia, che molti desideravano in moglie, ma l’oracolo aveva predetto al re che sarebbe morto per mano del genero. Così Enomao, convintosi di fare della figlia una “donna non sposata”, cioè una sacerdotessa piuttosto che un’orfana, decise che a sposare Ippodamia sarebbe stato colui che lo avesse sconfitto nella corsa dei cocchi, dal tragitto “sconfinato” (da Pisa all’altare di Poseidone a Corinto). Avendo il re ricevuto in dono dal padre Ares due cavalli di qualità prodigiose, ciò non avrebbe mai potuto avere luogo. Nonostante il vantaggio concesso ai suoi avversari, Enomao li raggiunse, trafiggendoli alle spalle. Piu avanti mozzò loro il capo per l’affronto di avergli recato sfida e, non contento, li inchiodò alle porte della reggia. Dopo che tredici di questi avevano fatto “ignobil fine”, si presentò Pelope invaghito al primo sguardo della fanciulla. E lei, risolse la faccenda, aiutandolo a corrompere l’auriga di Enomao, Mirtilo. Il furfante sostituì i perni delle ruote del cocchio reale con perni in cera che presto cedettero in corsa, causando la caduta rovinosa, in cui, imprevisto volle, morì il re padre. Ma il fato, si sa, non conosce sentimento alcuno. Non sarebbe stato necessario, poiché anche i cavalli di Pelope erano formidabile dono del dio Poseidone. Conclusa la corsa, tuttavia, Pelope forse non volle mantenere la promessa, o forse fu Mirtilo che cercò di violentare Ippodamia, fatto sta che il presunto fondatore delle Olimpiadi scaraventò in mare il suo complice (che il padre Ermes tramutò nella costellazione dell’Auriga). Per farsi perdonare dall’intrigo sanguinoso, a Zeus, si doveva una festa sontuosa e a lui per questo furono dedicati i Giochi. Preparativi della corsa furono immortalati dal cosiddetto Maestro di Olimpia nel frontone est del tempio di Zeus (metà del V secolo a.C.).

Il viaggio della fiamma

Ancora oggi le gare delle discipline delle Olimpiadi estive e invernali pretendono sia accesa la fiamma olimpica, appunto nella città di Olimpia, nel tempio di Era. Il fuoco è forza purificatrice, è calore e luce, è comunione del senso della vita e della morte. È necessario sfruttare la “luce del sole” attraverso uno specchio per riuscire nell’impresa: questo pretende la simbologia. La fiamma viaggia poi a piedi o, nella modernità…in aereo, in treno, a cavallo e su ogni altro mezzo utile a raggiungere il paese in cui i giochi avranno luogo. Non dovrà mai spegnersi! Vi era, nei tempi antichi, la scelta comune della tregua. Oggi non è piu così, nell’era moderna delegazioni hanno disertate le Olimpiadi, nell’antichità non sarebbe stato possibile portare avanti alcun conflitto, quando fossero state in corso le Olimpiadi: vigeva la “tregua sacra”. Già i giochi olimpici del 1916 furono cancellati a causa della Prima guerra mondiale. Le nazioni vincitrici del conflitto impedirono a quelle sconfitte di prender parte ai Giochi del 1920. A causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale furono cancellate le due edizioni, nel 1940 e nel 1944. Anche alla conclusione di questo conflitto i paesi sconfitti non furono ammessi (1948).

Il senso dell'Olimpiade

Ma qual è il senso dell’Olimpiade? Forse occorre ancora una volta, tornare al passato, penso a Orazio, alla sua dedica delle Odi a Mecenate ripresa da Gianni Brera per spiegare il senso intimo di Olimpia e i cosiddetti “guidatori di cocchio”. Raggiungere la meta. Modello di valori, pensiero che passa attraverso le meraviglie che sprigionano i corpi e le loro prestazioni.  Poi c’è l’aspetto di una grafica sempiterna che non cambia, e alludiamo agli anelli intrecciati che rappresentano l’unione dei cinque continenti, dai cromatismi mirati in quei cinque colori, (blu, giallo, nero, verde, rosso), più il bianco dello sfondo, anche questo creato dal pedagogista francese Pierre de Coubertin. Autore dell’ aforisma che indica l’importanza di partecipare, cioè l’esserci. Alda Merini, passeggiando tra i Navigli, un giorno mentre accendeva l’ennesima Diana in una torrida estate milanese, sorrise e mi disse: «Ho scritto dei versi pensando agli atleti, sai è scemenza quella che si racconta che il corpo scultoreo sia sinonimo di stupidità. Ne ho conosciuti di uomini “figli del Dio Apollo” che avevano dono della intelligenza e che poi finivano per essere assimilati all’altro Dio, Dioniso, Dio di follie, fuochi, furori e vino». Poi volgendosi a me, tra bonomia e curiosità: «Ha vinto davvero un italiano la maratona?». Eccoli i versi che Alda volle dedicare agli atleti di Olimpia: “Io lo conosco: / ha riempito le mie notti / con frastuoni orrendi, / ha accarezzato / le mie viscere, / imbiancato i miei capelli / per lo stupore. / Mi ha resa giovane e vecchia a seconda delle stagioni, / mi ha fatta fiorire e morire / un’infinità di volte. / Ma io so che mi ama/ E ti dirò, anche se tu non ci credi, / che si preannuncia sempre /con una grande frescura / in tutte le membra / come se tu ricominciassi a vivere / e vedessi il mondo per la prima volta. / E questa è la fede, e questo è lui, / che ti cerca per ogni dove / anche quando tu ti nascondi / per non farti vedere.” E l’immenso Brera, più prosastico, chiosò un elzeviro sui Giochi, raccogliendo in “un fazzoletto di parole” l’essenza stessa, tra sacro e profano, per cui valga l’agone: «Sotto la greve luna di agosto, importa che ancora oggi gli uomini sognino vincere senza spargere sangue. La cosa, del tutto impossibile in sé, nobilita il nostro mal comune, la vita».

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