È passato un anno e mezzo da quando Gianni Clerici ha lasciato questo ciclo di vite: si sente tanto la mancanza di uno degli ultimi giornalisti per i quali non era esagerazione usare l’appellativo di scrittore. Era talmente colto e brillante da diventare, nelle telecronache in coppia con Rino Tommasi, un punto di riferimento anche televisivo, tuttavia non ci sono dubbi sul fatto che il meglio della sua lunga e densa carriera sia legato ai libri e ai giornali. Valicando i confini che gli stavano stretti, avvicinandosi ad autori come Damon Runyon e David Storey, Paul Gallico e Nick Hornby, Clerici ha saputo trasformare qualsiasi partita di tennis in un evento, una rappresentazione narrativa che andava ben al di là del pur appassionante aspetto sportivo utilizzando una lingua unica, che la filologa Maria Corti definì “lombardese”. Rifuggiva ogni forma di banalità, talora fino all’eccesso. Scrisse proprio Tommasi, che si era divertito a ribattezzarlo il Dottor Divago per la facilità con cui apriva infinite seppur interessanti parentesi: «Non sempre nelle sue cronache troverete il risultato dell’incontro, ma troverete sempre la spiegazione della vittoria di un giocatore sul proprio avversario».
Baldini+Castoldi ha pubblicato un libro il cui senso è riassunto perfettamente nel titolo - “Gianni Clerici agli Internazionali d’Italia” (825 pagine, 28 euro) - e nell’epigrafe di Italo Calvino posta addirittura in copertina: «Uno scrittore prestato allo sport». Potremmo definirlo un diario pubblico nel quale si raccontano anche gli anni d’esordio del tennista Clerici e la folgorazione per la racchetta del bambino Gianni nella sua Como. Un passaggio, basta un passaggio per quei pochi che non hanno avuto la fortuna di leggerlo e che magari saranno incuriositi al punto di avventurarsi in questo testo o in altre delle sue tante opere, di saggistica o narrativa che siano: «Sul vecchio campo centrale, gli occhi ciechi delle statue conservano il ricordo di match memorabili, vicende che hanno fatto la storia del nostro tennis, e anche un poco la vita del vecchio Scriba. Ricordano, le statue, la vittoria di Nicola Pietrangeli nel 1957, quella di Adriano Panatta nel 1976, e infiniti altri psicodrammi dei nostri eroi, dall’esito spesso felice, specie in Davis. In quell’ovale in travertino, i nostri campioni hanno avuto modo di soffrire, detestarsi, esaltarsi, come non è spesso consentito all’uomo della strada».
Clerici, che nella breve carriera di tennista agli Internazionali di Roma raccolse sei sconfitte in altrettanti match, avvolge il lettore in una spira di parole che lo lasciano spesso senza fiato e comunque sempre estasiato. Ne sono testimonianza i tanti articoli qui raccolti (in assoluto ne ha scritti più di seimila, grazie ai quali è stato nel 2006 il secondo italiano a entrare tra gli immortali della Hall of Fame dopo Nicola Pietrangeli) e arricchiti da fotografie che aiutano a raccontare un’epoca irripetibile.