La bellezza, la fantasia, la creatività, anche un pizzico di irregolarità nel senso più preciso del termine («Mancata corrispondenza alla norma o alla consuetudine comunemente accolta e rispettata»). L’Olanda del 1974 era questo e tanto altro, ma è soprattutto per questo che la maggior parte di noi - non tutti magari, però la maggior parte di sicuro - sperava che vincesse la finale del Mondiale contro la Germania Ovest così fredda, così costantemente lucida, così terribilmente tedesca, oltre che così forte. E infatti finì 2-1 per la squadra di Gerd Muller, consegnando l’Olanda a una sconfitta che, per paradosso, l’ha resa ancora più immortale e simbolo di un’epoca irripetibile. Di quella formazione si ricordano sempre lo stratega, Rinus Michels e il gioiello, uno dei più grandi campioni di sempre: Johan Cruijff. Ci si spinge a citare Johan Neeskens o Ruud Krol, ma non ci si avventura a ricordare Jan Jongbloed, il portiere che indossava la maglia numero 8 (non per estro, quanto perché i numeri erano assegnati per ordine alfabetico - Cruijff e il suo 14 a parte -, come fece l’Argentina quattro anni più tardi, battendo tra l’altro in finale proprio l’Olanda) e che per tutta la vita si tenne le spalle coperte con un negozio di tabaccheria, perché non si sa mai.
Guglielmo Manuali ha scritto un libro (“Il numero 8 è il portiere”, Prospettiva Editrice, 218 pagine, 15 euro) che racconta quella nazionale mettendola in correlazione con la psicologia, la filosofia, la sociologia e la fisiologia. Un lavoro complesso e articolato, colto e godibilissimo: «L’Olanda appariva come una scatola impenetrabile, con mille cassetti, un cervello pensante, un complesso neurobiologico caratterizzato da interconnessioni tra reparti, strutturati da catene triangolari nei diversi settori del campo, e tutto questo veniva corroborato ed arricchito dalla fitta trama di passaggi che impreziosiva il gioco portandolo a livelli di sincronia come un codice interno di un sofisticato elaboratore elettronico». Sono termini di rado utilizzati per narrare il calcio e proprio qui sta il punto di forza del libro, caratterizzato, per dirla con Battiato, da voli imprevedibili e ascese velocissime, traiettorie impercettibili, codici di geometria esistenziale. Jongbloed non era un fenomeno, però lo ha accompagnato nel tempo un destino inferiore a quanto avrebbe meritato, perché la sua bravura con i piedi, per dire, era clamorosamente anticipatrice, tanto da consentirgli di avanzare spesso al limite del’area - e talora oltre - per trasformarsi nell’undicesimo giocatore di movimento.
La felicità che il portiere esprime nella foto di copertina descrive il calcio come fonte di gioia, spiega Manuali, espressione di un’avventura che è sempre protesa alla ricerca della perfezione e al dominio dello spazio. Il fatto che l’Olanda abbia perso le partite decisive contro la Germania Ovest e l’Argentina non toglie nulla al valore e al fascino di quell’Arancia Meccanica, come venne soprannominata citando il libro di Anthony Burgess trasformato in capolavoro del cinema da Stanley Kubrick. E rende ancora più affascinante l’esistenza del più improbabile di tutti: Jan Jongbloed.