Al termine di un’estate sportiva stravolta dai milioni sauditi, niente di più terapeutico che ripercorrere la storia di Jim Thorpe. C’è stato un tempo in cui l’uomo più forte del mondo, l’atleta portato in trionfo su una decappottabile per le strade di New York, veniva privato delle sue medaglie e cancellato dalla storia olimpica con l’accusa più infamante per l’epoca: professionismo. La sua vita viene ora riproposta da Tommaso Giagni con “Afferrare un’ombra” (Minimum Fax, 210 pagine, 16 euro), un libro che va ben oltre la biografia sportiva, con pagine in cui l’autore dimostra la stessa poliedricità di un decathleta. Dallo sprint ai lanci, dai salti agli ostacoli, per concludere con il mezzofondo: i campioni delle dieci fatiche devono dimostrare di essere completi, di saper eccellere in varie specialità. Allo stesso modo Giagni non si limita a un’accurata ricerca storica, ma varia scenari e registri portando il lettore attraverso gli Stati Uniti di inizio Novecento e esplorando gli albori dell’olimpismo.
Chi ama la storia a cinque cerchi apprezzerà la rigorosa ricostruzione di alcuni dei suoi episodi più discutibili, come gli “Anthropology Days, le cosiddette “Olimpiadi speciali” del 1904, parallele alle prime Olimpiadi fuori dall’Europa e all’Esposizione Universale della Louisiana - scrive Giagni -. Se i Giochi vantavano i migliori atleti e all’Expo si esibivano i costumi “primitivi”, la manifestazione firmata da Sullivan mostrava l’impaccio sportivo dei “selvaggi” di tutti i continenti: dai Pigmei dell’Africa equatoriale agli Ainu giapponesi, dagli Inuit delle coste artiche ai Sioux nordamericani. Due giornate di “studiata umiliazione”. Ricordare cosa sono stati è necessario per comprendere chi è James Edward Sullivan, uno degli uomini che si trovò a decidere la sorte sportiva di Thorpe.
Jim Thorpe è un nativo appartenente alla nazione indiana dei Sac e Fox, per gli Usa è un vanto ma, al tempo stesso, non ha pieno diritto di cittadinanza. James Sullivan è il dominus ipocrita e razzista dell’Amateur American Union, dove l’accento sta su quel termine “amateur”. Quando Thorpe conquista due ori (pentathlon e decathlon) a Stoccolma 1912, Sullivan si affretta a dire che “Thorpe è un vero americano, se mai ce n’è stato uno” ma, quando scoppia lo scandalo sul suo professionismo, lo liquida rapidamente e in maniera inappellabile. La colpa contestata a Thorpe è di essere stato pagato prima dell’Olimpiade per giocare in una squadra di baseball: 15 dollari a settimana con i Railroaders, in North Carolina. Quando nel 1913 esplode il caso, Thorpe ammette tutto firmando una lettera di scuse: «Non ero pratico delle cose del mondo e non mi sono reso conto di sbagliare e che il mio comportamento avrebbe fatto di me un professionista». Non basta la pubblica ammissione: le medaglie consegnatigli dal re di Svezia gli vengono tolte, i record cancellati. E questo atteggiamento proseguirà per decenni, alimentato da un personaggio come Avery Brundage che, dopo aver gareggiato con Thorpe a Stoccolma (con risultati nettamente inferiori), troverà la propria strada nei labirinti della politica sportiva sino diventare presidente del Cio. Brundage avrebbe il potere per riabilitare il suo ex compagno di squadra, ma non lo fa. Del resto lui è il famoso presidente del Cio che ai Giochi di Monaco 1972 liquiderà in poche parole la morte degli atleti israeliani, massacrati da Settembre Nero.
Da ex lanciatore, c’è chi dice che Brundage abbia un disco al posto del cuore. Di certo non ha pietà di Thorpe. Bisognerà aspettare fino al 2022 per arrivare a una piena riabilitazione di uno dei più grandi campioni nella storia dell’atletica. Oggi nessuno ricorda più gente come Brundage, Thorpe invece continua a ispirare chi nello sport cerca la Storia.