La corsa di Ullrich, campione fragile

Friebe ha intrapreso un viaggio sentimentale per raccontare uno degli sportivi più discussi con l’aiuto di chi l’ha conosciuto bene, compreso Armstrong

Ci sono quelli che Pantani era un dio. Ci sono quelli che Armstrong era il texano dagli occhi di ghiaccio. E poi c’è lui, Jan Ullrich, che raccontato da Daniel Friebe è «il più forte, il più fragile». Tra albi d’oro cancellati e hotel cimiteriali rasi al suolo, di quegli anni così entusiasmanti e così rinnegati cosa ci rimane? Tante inutili agiografie da un lato, pochi approfondimenti seri, capaci di guardare con la stessa profondità tanto la grandezza quanto la bassezza di certi personaggi. “Jan Ullrich” è un’opera imponente (Mulatero, collana Pagine AlVento, 490 pagine, 23 euro) che non cerca scorciatoie giornalistiche: Friebe viaggia, studia, raccoglie testimonianze e filtra tutto attraverso le emozioni che l’avevano portato, appena sedicenne, a dedicare a Ullrich un compito di tedesco. Il tempo è passato e il giovane liceale è diventato uno dei più apprezzati giornalisti britannici di ciclismo. Un professionista capace di portare avanti un lavoro accurato che non si accontenta di rimasticare e remixare aneddoti pescati qua e là, ma che va a cercarsi le fonti dirette, partendo da fisioterapisti e meccanici, passando per direttori sportivi e gregari, sino ad arrivare ai più grandi protagonisti dell’epoca.

Non a caso una delle parti più d’impatto del libro è l’incontro dell’autore con Lance Armstrong. Per capire come ha lavorato Friebe, qui non si tratta di qualche risposta strappata di fretta al texano, a margine di un evento: il giornalista britannico è volato a Austin, è andato a casa di Armstrong e ha giocato a golf con lui. Il tutto per parlare di Ullrich insieme a quello che è stato il suo avversario n.1. Un incontro che serve per raccontare Lance visto da vicino, per ascoltarlo al di fuori di un set alla Oprah Winfrey. «Ogni tee, l’attesa per tirare gli offre sempre qualche minuto di tempo per divagare - scrive Friebe - sull’incontro con la sua nemesi, il capo dell’Agenzia anti-doping degli Stati Uniti, Travis Tygart, segretamente programmato per il giorno successivo (la partita di golf risale al 2015, n.d.r.); sui suoi figli; sul fatto di essere stufo di Austin, «perché qui tutti hanno una storia su Lance Armstrong»; su Tyler Hamilton e sul fatto che «era sempre lui a spingere, a voler fare cose folli»; sull’«arroganza e l’idiozia» del suo ritorno alle corse, che definisce «la cosa più stupida che abbia mai fatto»; su come Michele Ferrari, il suo aiutante più disprezzato, fosse «il cazzo di tipo giusto» quando si trattava di allenarsi; sull’altra storia che deve raccontarmi... «ma aspetta che prima faccio questo tiro». Non si può capire Ullrich senza conoscere Armstrong. Non si può parlare di quegli anni senza incontrare chi li ha incarnati e plasmati.

Il viaggio di Friebe però parte da più lontano, perché la corsa di Ullrich inizia molto prima del Tour del 1997. Comincia a Rostock, Germania Est. Ddr, una sigla che nello sport è diventata sinonimo di onnipotenza farmacologica. La carriera di Jan non può essere assimilata ad altre figure dello sport tedesco orientale, come ad esempio Marita Koch (regina dell’atletica, tuttora detentrice del primato mondiale dei 400 con un mostruoso 47”60). Quando Ullrich nel 2000 vola in Australia per andare a vincere i Giochi di Sydney il Muro è già caduto da più di un decennio e Jan, il prodotto dell’Est, è un campione della Germania unificata. «Mi chiedo se Ullrich non senta la sua carriera come l’autore Maxim Leo sente la sua giovinezza nella Ddr. Proprio come ai tedeschi dell’Est non e consentito parlare in modo romantico dei piaceri banali di un’infanzia ordinaria, per non essere accusati di Ostalgie, cosi Ullrich potrebbe non trovare l’energia o il linguaggio per convincere i suoi connazionali che non è stato tutto negativo». A volte mancano le parole. E libri come questo aiutano a cercarle.

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