La leggenda Ferrari è iniziata così

Enrico Brizzi racconta Enzo Ferrari: una trilogia che si apre con l'infanzia e la giovinezza dell'uomo che ha inventato uno stile unico e vincente
La leggenda Ferrari è iniziata così

TORINO - L’Ottocento sta finendo. Tra un anno entreremo in un’epoca nuova, che Eric Hobsbawm definirà  “il secolo breve”, per l’accelerazione sempre più esasperata impressa agli eventi della storia e alle trasformazioni nella vita degli uomini. Siamo a Modena, città sonnecchiosa dove tra chioschi da fiera e profumi di lambrusco e di salumi si festeggia San Geminiano, il patrono della città. Enzo Ferrari è un neonato in braccio alla madre Gisa: chi sta meglio di lui? Un attimo dopo, la folla fugge, urla, strepita: come in uno dei pionieristici cortometraggi dei fratelli Lumiére, “’L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat”, girato appena tre anni prima. A provocare la scomposta reazione è la prima automobile che si sia mai vista a Modena: la guida Fredo, il papà di Enzo. È ancora il tempo della meraviglia, dello stupore ingenuo e tenero di un’umanità che sarà proiettata, non molto tempo dopo, verso l’abisso della guerra mondiale. È una scena che, raccontata con il senno di poi, acquisisce il valore di un imprinting. Per certi versi, la storia del più celebre costruttore di automobili comincia quel giorno, seppure in maniera inconsapevole.

Enrico Brizzi, uno dei “cannibali” che tre decenni fa svecchiarono la letteratura italiana - “Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Una maestosa storia d’amore e di «rock parrocchiale»” è del 1994 -, possiede il gusto della ricerca, il desiderio di non ripetere mai se stesso ma inseguire strade nuove, poco battute. Così ha deciso di avventurarsi in una trilogia dedicata a Ferrari, di cui è appena uscito il primo volume (“Enzo. Il sogno di un ragazzo”, HarperCollins, 464 pagine, 20 euro). È il racconto dei primi vent’anni del futuro Drake, ma è soprattutto un’opera corale che risente delle suggestioni culturali di cui si è nutrito Brizzi, a cominciare dai capolavori di Fellini e da “Novecento” di Bertolucci. Nascere in Emilia lascia segni inevitabili e profondi, perché si acquisisce un’identità che pochissime terre hanno e che si nutre certo di calcio e di pallacanestro ma il cui denominatore comune assoluto è l’amore sconfinato per la Ferrari.

E allora diventa difficile starne lontani anche per uno scrittore che ama la bicicletta e l’ha celebrata con i suoi scritti. Resistere alla tentazione è impossibile, come ha dimostrato Lucio Dalla con un intero album dedicato alle automobili, l’ultimo scritto con il poeta Roberto Roversi, quello che contiene “Nuvolari”, “Il motore del 2000” e “Mille miglia”. Non è soltanto passione vagamente futurista per la velocità e il fascino che ne deriva. È il desiderio di cimentarsi con l’epica in una delle variabili più contemporanee che ci siano.

L’officina del babbo Fredo è la culla dove si formano le speranze e le ambizioni del piccolo Enzo e del fratello Dino. Fa un certo effetto leggere queste pagine e pensare a quello che Ferrari ha rappresentato nei decenni successivi, intrisi di giorni indimenticabili nella gioia e nel dolore. Brizzi nega la freddezza e il cinismo che spesso sono stati appiccicati alla sua figura. O meglio: sì, forse c’era anche questo aspetto - l’infinita attesa di principi e re per avere una Ferrari senza poter godere di alcuna corsia preferenziale - ma non nel privato, in quelle lettere scritte con l’inchiostro violetto e caratterizzate da toni sentimentali se non melodrammatici, o nell’entusiasmo con cui, sedicenne, scrive per la Gazzetta dello Sport la cronaca di Modena-Inter. Piccola prova di giornalismo, presto accantonato per iniziare a costruire la propria leggenda.

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