Pagina 4 | “Ha vinto la Juve, non la sento mia”: la vera storia della Coppa di Calciopoli

Cosa abbia spinto Beppe Marotta a chiedere una copia della Coppa Scudetto 2006 alla Lega, per esporla nella bacheca dell’Inter è abbastanza chiaro: compiere un atto di eroismo nerazzurro per apparire ancora più bello e ancora più interista agli occhi del suo popolo. E si tratta della cosa più lecita e umanamente comprensibile del mondo. Resta, invece, un mistero come, lo stesso Marotta, non abbia calcolato le conseguenze del gesto, proprio lui, amante della pace o, meglio, delle pacificazioni. Oltretutto senza ricordarsi di aver giudicato «iniqua» l’assegnazione tavolinesca di quello scudetto all’Inter, quando indossava la giacca della Juventus. «La cosa più grave di Calciopoli è il trattamento iniquo tra noi e loro», aveva detto il 22 febbraio 2016 e, se è vero che si può cambiare idea, è anche vero che certe giravolte sarebbe meglio lasciarle al tipo di calciatore che, a ogni cambio di squadra, racconta di aver sognato fin da bambino quella magica maglia.

La Coppa Scudetto 2006

In ogni caso, ieri, la fedele copia della Coppa Scudetto del campionato 2005-06 è arrivata nella bacheca dell’Inter, che l’ha esposta senza darle troppa visibilità sui suoi canali, ma canalizzando qualche foto e un commovente retroscena sul passaggio del trofeo a casa Moratti per consentire un «abbraccio» da parte dell’ex proprietario nerazzurro al trofeo, la cui versione originale, ovvero quella consegnata sul campo il 14 maggio 2006, resta esposta nella bacheca della Juventus al J-Museum. Perché, se le sentenze del 2006 hanno assegnato il titolo di campione d’Italia all’Inter, la Coppa non si è mai mossa da Torino e né Lega Serie A, né Figc, hanno avuto il coraggio di chiederla indietro al club bianconero. Quindi, su richiesta dell’Inter risalente a qualche mese fa, ne è stata fatta una copia, è stata benedetta leggendo qualche passo di intercettazioni ed è stata recapitata senza costi aggiuntivi nella bellissima sede dell’Inter. Così, diciotto anni dopo, si può tornare a parlare di Calciopoli, allargando di nuovo la ferita il cui pus ha intossicato il calcio italiano e che, certo, non si era chiusa, ma era quasi sparita dal dibattito quotidiano. E allora, va bene, riparliamone di quello scudetto assegnato da Guido Rossi, un fervente tifoso interista, ex membro del consiglio di amministrazione dell’Inter e nel 2006 commissario della Figc.

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Un titolo che non si poteva assegnare

Un titolo che tecnicamente non si poteva assegnare, ma che Rossi voleva a tutti i costi dare all’Inter, terza classificata a 16 punti di distacco dalla Juventus, in un campionato che - dirà poi la sentenza penale di primo grado - «non presentava prove evidenti di alterazione». Ma all’epoca, nella folle estate del 2006, era stato clamorosamente facile dividere i buoni dai cattivi con un taglio netto, anzi chirurgico, come quelli operati sulle intercettazioni dagli inquirenti. Rossi, dunque, chiese un parere a tre «saggi», ovvero tre giuristi internazionali (Gerhard Aigner, Massimo Coccia e Roberto Pardolesi), i quali scrissero cinque paginette molto ragionate, nelle quali distinguevano il titolo di «vincente del campionato», necessario per dire all’Uefa chi andava in Champions, dal titolo di «campione d’Italia», che comportava qualcosa di moralmente superiore. E proprio in virtù di questo sofisticato distinguo giuridico, consigliavano (e neanche troppo fra le righe) di soprassedere, perché «alla luce di criteri di ragionevolezza e di etica sportiva (ad es. quando ci si renda conto, ancorché senza prove certe, che le irregolarità sono state di numero e portata tali da falsare l’ intero campionato, ovvero che anche squadre non sanzionate hanno tenuto comportamenti poco limpidi), le circostanze relative al caso di specie rendono opportuna la non assegnazione». Cioè, tradotto dal legalese, gliel’avevano proprio detto: “Guido, capiamo l’entusiasmo, ma metti caso che poi emerge qualcosa anche sull’Inter... cioè, non si sa mai... insomma, noi lasceremmo perdere”.

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Guido Rossi e lo scudetto all'Inter

Guido Rossi, invece, lo prese come un grosso sì e assegnò lo scudetto all’Inter con un comunicato stampa. Sì, non esiste alcun atto ufficiale, nessun documento protocollato, nessuna traccia nell’archivio di quella decisione, se non il comunicato stampa con cui se ne dava la notizia e si stappava la festa dell’Inter, impegnata quella sera nella Sud Tirol Cup, persa ai rigori con il Monaco. E nell’angusto spogliatoio dello stadio di Bolzano i festeggiamenti erano stati strani, come dire... un po’ forzati. Qualche giocatore, dopo la doccia, si era perfino lasciato scappare un «non lo sento mio, quello lo hanno vinto i giocatori della Juve». E non erano certo parole per assolvere Moggi o ridimensionare le durissime sentenze dei processi sportivi, quanto per non condannare i colleghi bianconeri. Una riflessione a voce alta di uno sportivo che, in coscienza, sa benissimo quando gli altri sono stati più forti. Quella frase evaporò presto nella notte tirolese e l’Inter, da quel momento, si ritrovò con uno scudetto in più nei conteggi della Figc e, in quel momento, erano in pochi quelli che avevano qualcosa da dire in contrario.

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Il processo di Napoli

Poi, però, arrivò il processo di Napoli. E arrivarono i cd con le intercettazioni, tutte le intercettazioni, non la compilation fabbricata dai pm con tutto il peggio di Luciano Moggi, bensì il quadro completo di cos’era il calcio italiano nella stagione 2004-05 (l’unica stagione “intercettata” tra l’altro), ovvero un luogo eticamente discutibile in cui sostanzialmente tutti (il Torino no, a onore della storia e della verità) telefonavano ai designatori arbitrali per chiedere favori e favorini o fare pressioni o pressioncine per avere questo o quel direttore di gara. Venne fuori che il presidente Carraro aveva detto al designatore Bergamo di istruire bene un arbitro affinché «nel dubbio! fischiasse «contro la Juve». Venne fuori che nessun arbitro si era reso colpevole di aver truccato una sola partita della Juventus. E vennero fuori le telefonate dei dirigenti dell’Inter. Era il 2009 e l’allora procuratore federale Stefano Palazzi, lo stesso che era stato implacabile accusatore della Juventus, ci mise due anni per prendere in esame quelle nuove evidenze. E, a tempo scaduto, ovvero quando tutto era prescritto, lui scrisse una relazione di 72 pagine, pubblicata il 4 luglio 2011, cinque anni dopo la festa scudetto di Bolzano.

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L'Inter e l'illecito sportivo

E ci andò giù piatto con l’Inter e suoi dirigenti, imputando loro l’accusa più grave, quella di illecito sportivo (per la quale si può anche retrocedere): «Questo Ufficio ritiene che le condotte in parola siano tali da integrare la violazione, oltre che dei principi di cui all’art. 1, comma 1, anche dell’oggetto protetto dalla norma di cui all’art. 6, comma 1, in quanto certamente dirette ad assicurare un vantaggio in classifica in favore della società Internazionale F.C., mediante il condizionamento del regolare funzionamento del settore arbitrale e la lesione dei principi di alterità, terzietà, imparzialità ed indipendenza, che devono necessariamente connotare la funzione arbitrale». Insomma, quelle pesantissime parole cancellavano il principio fondamentale di illibatezza etica richiesto dai tre saggi che, essendo tali, avevano annusato fin da subito che quell’assegnazione a tavolino era scivolosissima. Da allora, tuttavia, nessuno ha mai avuto il coraggio di cancellare quello scudetto dal palmares dell’Inter e di lasciare due, non solo una, caselle vuote nell’albo d’oro. Così ognuno ha iniziato a contare i titoli a modo suo. E chi lo sa meglio di tutti è proprio Marotta che brindò alla terza stella e al “trentesimo” scudetto juventino nello spogliatoio di Trieste, il 6 maggio 2012, e che ieri ha esposto il “quattordicesimo” scudetto interista nella bacheca di viale della Liberazione. La coppa ubiqua, come certe reliquie medievali: Umberto Eco ci avrebbe potuto tirare fuori un grande romanzo.

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Il processo di Napoli

Poi, però, arrivò il processo di Napoli. E arrivarono i cd con le intercettazioni, tutte le intercettazioni, non la compilation fabbricata dai pm con tutto il peggio di Luciano Moggi, bensì il quadro completo di cos’era il calcio italiano nella stagione 2004-05 (l’unica stagione “intercettata” tra l’altro), ovvero un luogo eticamente discutibile in cui sostanzialmente tutti (il Torino no, a onore della storia e della verità) telefonavano ai designatori arbitrali per chiedere favori e favorini o fare pressioni o pressioncine per avere questo o quel direttore di gara. Venne fuori che il presidente Carraro aveva detto al designatore Bergamo di istruire bene un arbitro affinché «nel dubbio! fischiasse «contro la Juve». Venne fuori che nessun arbitro si era reso colpevole di aver truccato una sola partita della Juventus. E vennero fuori le telefonate dei dirigenti dell’Inter. Era il 2009 e l’allora procuratore federale Stefano Palazzi, lo stesso che era stato implacabile accusatore della Juventus, ci mise due anni per prendere in esame quelle nuove evidenze. E, a tempo scaduto, ovvero quando tutto era prescritto, lui scrisse una relazione di 72 pagine, pubblicata il 4 luglio 2011, cinque anni dopo la festa scudetto di Bolzano.

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