Heysel, 39 anni fa la strage: mai più morte e oltraggi, rispetto e amore

Il 29 maggio 1985 a Bruxelles una delle tragedie più assurde di sempre, causata dagli hooligans del Liverpool. E una ferita troppe volte riaperta con gli insulti alla memoria. Le 39 vite che contano ancora

Trentanove anni fa, trentanove persone, fra i 10 e 57 anni, morirono in uno stadio. Nessuno dovrebbe mai morire per una partita di calcio ma, trentanove anni fa, il destino, con la collaborazione dell'insipienza delle autorità belga e dell'Uefa, si prese trentanove persone, nel settore Z dello stadio Heysel di Bruxelles. Bisogna fare attenzione, trentanove persone, non trentanove tifosi e, men che meno, trentanove juventini (che poi manco erano tutti juventini). E bisogna fare attenzione perché se non ripartiamo da qui, dal concetto di persona, in questo anniversario che fa tristemente combaciare i numeri, rimarremo sempre intrappolati nell'analfabetismo morale dell'insulto, barbarizzando la memoria, il bene più prezioso per far progredire il genere umano.

L'ignoranza dei fatti o la perdita della memoria asfaltano l'autostrada verso l'inciviltà

Trentanove anni dopo, possiamo dire che, quella dell'Heysel, è una strage che è servita a qualcosa. Questo non la rende meno dolorosa e tragica, ci consente di onorare meglio il ricordo di quelle trentanove persone. Se oggi, infatti, gli stadi sono luoghi più sicuri di allora è anche e soprattutto per la reazione a quell'orrore, che non ha cancellato del tutto la violenza, ma ha reso possibile una presa di coscienza collettiva e una maggiore cura delle condizioni di sicurezza nelle competizioni sportive.

Ed è anche per questo che fa ancora più male (e ribrezzo) il pensiero di padri con i loro figli che insultano quelle trentanove persone, stando sugli spalti di uno stadio, dove hanno portato i loro bambini proprio perché è diventato più sicuro. Ma l'ignoranza dei fatti o la perdita della memoria asfaltano l'autostrada verso l'inciviltà, che stiamo percorrendo a velocità sempre più pericolosa, non solo negli stadi. Forse è il caso di fermarsi, dunque, e ricordare una per una le trentanove persone morte trentanove anni fa, dedicare un pensiero a ognuna di loro, provare a identificarsi con quelle con la storia più vicina a noi. Se dopo questo ingrato esercizio si ha ancora la voglia di insultare le trentanove vittime dell'Heysel, allora non c'è più speranza.

C'era, infatti, chi in quello stadio non desiderava neanche esserci, ma accompagnava un amico. C'era chi non fremeva per la possibile conquista della Coppa dei Campioni da parte della Juventus, ma per l'idea di vedere una grande finale, da semplice appassionato di calcio. C'erano belgi; c'erano due francesi; c'era un irlandese che nemmeno seguiva il pallone; c'erano quattro tifosi interisti, due di Francavilla al Mare, uno di Brescia emigrato in Belgio e uno di Bassano; c'era il piccolo Andrea Casùla, che aveva quasi undici anni e due passioni calcistiche: la Juventus e Cagliari; c'erano mogli che accompagnavano i mariti; c'erano, appunto, trentanove "persone", ognuna con la sua vita, ognuna con la sua storia.

L'Heysel deve essere di tutti, è un momento di riflessione

È passato tanto tempo da quella notte, abbastanza perché quattro generazioni siano cresciute e stiano crescendo avendo, nella migliore delle ipotesi, solo sentito parlare dell'Heysel e della sua tragedia. Per anni, forse troppi, la stessa Juventus preferiva sorvolare sull'Heysel scegliendo la via della rimozione per elaborare il lutto: il 29 maggio era un brutto giorno per tutti i tifosi bianconeri, ma quasi non si poteva dire. Da qualche tempo, per fortuna, è diverso e la società contribuisce alla manutenzione della memoria, azione fondamentale per ottenere il rispetto dovuto e accrescere un'identità collettiva che nasce anche intorno alle tragedie condivise.

Ma l’Heysel è di tutti, deve essere di tutti, è un momento di riflessione che una volta all’anno tutta la comunità calcistica europea deve svolgere nel rispetto delle vittime e nel pensare un calcio sempre più cosciente sui temi della sicurezza, della non violenza, dell’essere un territorio in cui unirsi e non dividersi. Anche l’odio nei confronti del Liverpool e della sua tifoseria dovrebbe essere sfrattato dalla questione, perché il ricordo di quelle trentanove persone non può e non deve generare altro rancore e gettare semi per altra violenza. Ricordare l’Heysel significa, in ultima analisi, evitare che ci siano altri Heysel: l’unico vero modo per onorare la memoria di quelle trentanove persone.

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