TORINO - Da un’officina a una stalla. Anche nell’Ottecento gli juventini cercavano di non sforare il bilancio e quindi per l’affitto della prima sede sociale non era il caso di scialare. E’ un numero di “Hurra? Juventus” del 1915 che racconta le peripezie dei primi bianconeri. I pionieri avevano fondato il club il primo novembre del 1897 nell'officina meccanica dei fratelli Confari, ma subito dopo avevano dovuto affrontare il problema di un luogo dove riunirsi. E Domenico Donna, uno di loro, ricostruiva in modo frizzante le travagliate vicende di quello che era un gruppo di adolescenti.
L'INCUBO - «Per le nostre menti giovanili c’era un pensiero che costituiva un incubo: avere una sede! Intendiamoci, non una stanzuccia, ma proprio un locale a modo, dove il Socio trovasse un giusto corrispettivo di utile e dilettevole a quella unita? monetaria che avrebbe, ogni mese, sborsata al Cassiere. Di cercarla s’incaricarono i Canfari, gli altri, troppo giovani, non avrebbero osato turbare di giorno il sonno d’un portinaio e di notte c’era sempre di mezzo un campanello... Fortuna volle che i Canfari trovassero il fabbisogno in quattro camere, un cortile, una tettoia e una soffitta».
SEI LIRE - L’affitto era abbordabile: sei lire al mese (i soci ne versavano una a testa ogni 30 giorni), ma i locali non offrivano certo lusso. La prima sala era senza finestre, «ma in compenso la luce filtrava dal tetto... assieme al resto». Poi c’era la sala destinata alla lotta libera (perche? l’articolo 1° dello statuto diceva: «la societa? ha per iscopo lo sviluppo d’ogni ramo dello sport») dove il problema era la polvere, «visto che di pavimento non se ne parlava». La sala riunioni era riscaldata «a refurtiva», nel senso che ognuno dei soci era invitato a portarsi qualche pezzo di carbone e appena giunto lo poneva nel braciere. Nella stessa sala era difficile mantenere l’equilibrio per via di un pavimento che declinava verso il centro e questo perche?, ammette Donna con fiera ironia : «Quella sala era una stalla!».
I RECLAMI - Fu sul registro «reclami e referendum» conservato in quella stanza che venne deciso il nome della societa?. Funzionava cosi?: «Uno scriveva la sua pensata lasciando sotto lo spazio a quelli che approvavano mettendo la loro firma e, l’indomani, sbirciando il libro di soppiatto, aveva la soddisfazione di leggere in calce una quantita? di firma autorevoli, non escluso qualche "bàrich" (sciocco, stupido in piemontese) o titolo equipollente». Sul nome da assegnare al Club le proposte furono molteplici: Iris Club, Societa? Massimo D’Azeglio, Societa? Polisportiva Augusta Taurinorum, Forza e Salute, Vigor et Robur... Alla fine il ballottaggio finale fu tra Societa? Via Fort, Societa? Sportiva Massimo D’Azeglio e Sport Club Juventus. Vinse l’ultimo forse «perche? pochi simpatizzavano per quello». Battezzata la societa?, furono istituiti le tessere. Le prime erano in pergamena e il cassiere-segretario apponeva la sua firma «per esteso! E si chiamava Enrico Piero Molinatti!», dopo aver incassato la famosa lira.
LE MAGLIE - Altro problema furono le maglie, ma quello emerse in occasione della prima sfida con un’altra societa?, la F.C. Torinese, fondata dagli stranieri residenti a Torino e poi integrata con altri «sportsmen» italiani. «Non pareva vero di poterci cimentare con dei veri giocatori benche? di complessione e statura poco rassicuranti. Furono batoste come squadra, ma individualmente, per il grande esercizio nel palleggio non sfigurammo affatto». «Per l’occasione, comunque, ci voleva una divisa, ma come? Di cotone, di flanella o di maglia? Ecco le discussioni gravi e assillanti del momento! I gusti erano parecchio difficili, ma alla fine sul cotone e sulla flanella trionfarono i settanta centesimi al metro di un percalle sottile e roseo che portammo, sempre piu? sbiadito, fino al 1901, quando arrivarono le maglie bianco e nere dall’Inghilterra. Ma la divisa non era tutta qui: un berrettino di piquet bianco alla savoiarda, pantaloncini neri, cravatta dello stesso colore. Si?, la cravatta, c’e? poco da sogghignare. C’era addirittura un socio che giocava con il solino inamidato. E si trovava benissimo».