Dino Zoff: sono passati quarant’anni da quella notte, sembra incredibile. Soprattutto perché quarant’anni fa lei ne aveva altrettanti, e qualcuno si azzardava già a darle del vecchietto. Anzi, quegl’incauti avevano cominciato quattro anni prima, in Argentina, dopo quei gol da lontano presi con l’Olanda e poi nella finale per il terzo posto contro il Brasile.
«Be’, be’, be’... Io ho sempre lasciato che dicessero, fuori. In campo invece, cioè in porta, ho sempre cercato la tecnica, il posizionamento, la coordinazione. Coltivavo i gesti semplici».
La complessità della semplicità. Quant’è difficile fare bene le cose semplici. Tutt’altro che facili.
«In fondo, questa, era anche la forza di Bearzot. Che poi, poco alla volta, è diventata la nostra, al di là della retorica del gruppo, che io non amo. Se sei bravo, devi fare al meglio le cose che sai fare, far fruttare i talenti che la natura ti ha dato. Non è necessario essere tutti amiconi, o ridere sempre, o fare gli splendidi. Lavorare tanto e bene, ecco. Nemmeno dal Vecio, dopo i Mondiali del ’78 che erano finiti in quel modo lì, dopo uno splendido torneo che aveva gettato le basi per l’82, ebbi bisogno di tante parole. Parlava con i fatti, lui. Continuò a chiamarmi, segno che aveva fiducia in me, stima, che è una cosa diversa dalla riconoscenza. Bon. Per me quello contava. E sono andato avanti: con lui, con loro. Fino a diventare campioni del mondo».
A coronamento di un cammino dapprima impervio - fra impacci enormi sul campo e tensioni pazzesche fuori, risse sfiorate con alcuni giornalisti - e poi via via più lieve, sciolto, infine dirompente, autorevole, irresistibile, quasi ineluttabile, malgrado il valore crescente degli avversari che vi si presentarono innanzi.
«La pressione nel turno di qualificazione era enorme, perfin opprimente. Ma è sempre stato così, per l’Italia. Almeno finché ho frequentato il calcio io. Ricordo come fosse ora l’accoglienza che ricevemmo al rientro dalla Germania, nel ’74, dopo l’eliminazione per mano della Polonia, che poi arrivò terza eh? Alla Malpensa vennero a prenderci con i cellulari, ma non con quelli che si usano oggi, i telefoni. Quelli della polizia. Chissà cosa sarebbe accaduto se fossimo usciti anche in Spagna, non oso neanche immaginarlo. Volevamo, dovevamo assolutamente passare il turno, e basta. Anche facendo il minimo sindacale, ciò che in effetti accadde».
E giù polemiche. Accuse. Illazioni. Ironie deragliate in sarcasmi grevi, che poi chiaramente si ritorsero contro i censori. La decisione del silenzio-stampa, evento a suo modo storico, e lei incaricato di fare da portavoce della Nazionale. Zoff. Detto il muto.
«Massì, cosa volete farci, cosa ci potevo fare. Non fu facile assumere una posizione del genere, ma in quel momento, con le cose che stavano uscendo, gli attacchi incontrollati, fin sguaiati, che rischiavano di minare la nostra serenità, ci sembrò la scelta giusta. Mica potevamo star lì a rintuzzare ogni momento le polemiche, giuste o sbagliate che fossero. Chiaro che fu dura, tenere botta, davanti a un uditorio scettico, a volte dichiaratamente ostile. Io mi sforzai di scegliere le parole adatte e di tenere i comportamenti giusti. Mi assunsi quella responsabilità da capitano, il più anziano, quello con maggior esperienza. Dissi ai miei compagni, nello spogliatoio: voi pensate a giocare, io parlo»
Zero a zero interlocutorio all’esordio con la Polonia, un 1-1 davvero brutto col Perù del quale vale la pena ricordare giusto il gol sublime di Bruno Conti, poi un altro 1-1 tremebondo e iper discusso - prima, durante e dopo - contro il Camerun. Tre pareggi per una qualificazione stentata. Ma davvero a quel punto avevate cominciato a crederci?
«Be’, be’, be’: in realtà, quando ci rendemmo conto che avremmo dovuto far fuori l’Argentina campione del mondo, con in più Maradona, e il Brasile, quel Brasile di fenomeni, qualche dubbio ci venne, eh. Ma, come dicevo prima, a quel punto ci eravamo tolti di dosso il peso più grosso, la zavorra mentale diciamo. Sapevamo di essere bravi, dovevamo solo dimostrarlo, in qualche modo ci sentimmo pervadere da una sorta di leggerezza che un poco somiglia a quella sensazione di non aver niente da perdere. Solo un poco, però. Perché sì, nessuno avrebbe potuto sbertucciarci se avessimo perso contro rivali di così alto livello, ma col cavolo noi ci sentivamo battuti in partenza. Anzi. E gran parte di questa nostra forza risiedeva nel condottiero: Bearzot. Il Vecio. Il nostro comandante. Unico. Inimitabile. Insostituibile. Soltanto lui avrebbe potuto renderci così consapevoli del nostro valore in un simile contesto. Grandissimi meriti per lui, purtroppo - e non ho mai capito perché - non altrettanto grandi onori».
Be’: un grande onore extra Mundial e Cavalierato della repubblica, in realtà Bearzot lo ricevette: il bacio di Zoff.
«Quella fu una debolezza mia. Cedetti all’istinto, tradendo un poco la mia compostezza friulana, e il suo pudore altrettanto furlàn. Glielo stampai, sì, e lui rimase un po’ di stucco. Ma davvero gli volevo molto bene. Tutti gliene volevamo. La sua gioia, dopo tutta quella sofferenza, quella fatica, me la sono sempre portata dentro e me la porterò fino alla fine. La gloria personale passa, certe cose più profonde, intense, radicate no. Lui impose la forza delle proprie idee, le scelte fatte sugli uomini prima ancora che sui calciatori, la coerenza nonostante gli tirassero la giacchetta a destra e a manca. E dire che dopo il Mondiale in Argentina lui non aveva davvero più niente da dimostrare, o fiducia da meritarsi. E invece: a Milano lo attaccavano per la rinuncia a Beccalossi, a Roma per quella a Pruzzo, un po’ tutti per l’ostinazione a puntare su Rossi dopo lo scandalo scommesse e su... Zoff dopo i gol di Haan e compagnia cantante».
Zoff che, dicono adesso in tanti, vinse di fatto il Mundial in anticipo bloccando a terra, a pochi centimetri dalla linea di porta, il colpo di testa che avrebbe dato al Brasile il 3-3 e la qualificazione alla semifinale con la Polonia. Mancava un minuto alla fine: l’Italia intera trattenne il fiato.
«E anch’io, con gli italiani, le migliaia sui gradoni del Sarrià e i milioni a casa davanti alla televisione. Mi tuffai alla mia sinistra, arpionai il pallone con i guantoni aperti. Decisi di non muovermi, rimasi lì fermo e sicuro di me per non dare all’arbitro la sensazione che la palla potesse aver varcato la linea. Sapete com’è, all’epoca mica c’era la goal line technology, tutti ‘sti replay, dall’alto, dal basso, davanti e didietro, e quelle diavolerie lì. Io lo sapevo di averla presa in tempo, ma un paio d’anni prima in una partita della Nazionale mi avevano dato gol quando non lo era, e insomma, il ricordo mi era rimasto, mi aveva segnato. Poi vidi Zico alzare le braccia al cielo, a metà tra l’esultanza e la protesta, e pure Socrates e altri di loro, e allora mi alzai di scatto in piedi per correre verso di lui e verso tutti facendo no no no con il dito. Per fortuna il signor Klein indicò la rimessa e non il centrocampo. Fu sua la vera prodezza: quella di non lasciarsi condizionare. Anche se sì, insomma, la mia è stata una parata effettivamente come Dio comanda».
Prima di attribuirla al suo effettivo autore Oscar, quell’incornata - nella concitazione di teleradiocronache e resoconti giornalistici - venne assegnata un po’ a tutti: Leandro, Paulo Isidoro, perfino a Cerezo. Il colpo di testa con più padri nella storia del calcio!
«È che sulla punizione da sinistra di Eder andarono a saltare in tanti dei loro, con Toninho a fare su Gentile un blocco che magari oggi farebbe annullare l’eventuale gol dal Var. Il quoziente di difficoltà di quella parata fu elevato al massimo proprio da questa simultaneità di stacchi, compresi quelli a vuoto dei difensori davanti a me. Quante volte ho rievocato quel momento con i giocatori brasiliani che incontravo. Junior, a Torino, in occasione dei derby e non solo. E poi con Falcao, Zico, Cerezo. Con lo stesso Oscar pure, quando una trasmissione radio ci mise in contatto. Avesse segnato quel gol, gli avrebbe cambiato la carriera, perché il pareggio avrebbe condotto il Brasile in finale, e probabilmente al trionfo. E sì, posso dire che forse il Mondiale lo abbiamo un po’ vinto lì, perché poi con la Polonia e pure in finale con la Germania non ci fu sostanzialmente storia. La facemmo noi, la storia».
Rossi, dopo quella fantasmagorica tripletta, continuò a fare gol: due alla Polonia, uno - quello apripista del trionfo - ai tedeschi.
«Io da quel momento in avanti non ebbi più alcun dubbio sul nostro successo finale. Lo dissi ai miei compagni dopo il 3-2 al Brasile: convinsi pure loro. Al Camp Nou vincemmo in scioltezza, al Bernabeu fu l’apoteosi. L’urlo di Tardelli, il mio amico forse più caro in quel gruppo, dopo tutti quei passaggi perfetti, da Conti a Rossi, e poi Scirea - il mio, il nostro Gaetano - con il ragazzino Bergomi che già aveva i baffi. Altro che possesso palla. Il tris di Spillo, Gentile che recupera palla sull’assalto di Briegel, dà a Bruno che s’invola sulla destra, e via andare».
Ma lei lo sapeva già prima, diceva. Prima anche dell’1-0 di Pablito.
«Sì. Vi svelo una cosa. Dopo che Cabrini aveva sbagliato il rigore, sullo 0-0, andammo al riposo e nello spogliatoio lo vidi realmente distrutto, confuso: aveva davvero patito quell’errore dal dischetto. Allora andai da lui per scuoterlo e gli dissi, amichevolmente ma con tono deciso: Antonio, non ti preoccupare, rientra in campo tranquillo, gioca sereno: vinciamo lo stesso. Vinciamo noi».
Perché quel trionfo è rimasto così tanto, più di qualunque altro, nel cuore della gente? È qualcosa di mitico, o comunque di speciale, anche per chi all’epoca nemmeno era nato e lo ha scoperto dai racconti, nelle letture, nelle rievocazioni.
«Perché come per magia si unirono tutte le componenti della bellezza del calcio, e anche della vita. La vittoria sulle critiche. Il crescendo rossiniano. La qualità degli avversari battuti. La spettacolarità di tutte le reti che segnammo. Ragazzi, tutti gol su azione. Tutti. Azioni splendide, straordinarie. I due di Tardelli, quello di Cabrini. Quello di Altobelli. Perfino il terzo di Rossi al Brasile, nato da un calcio d’angolo ma giunto poi dopo due tocchi. La perfezione del nostro contropiede, che oggi chiamano ripartenza perché fa più moderno ma è la stessa roba, anzi la nostra era meglio. Per carità, grandi meriti nel 2006, il Mondiale conquistato in Germania, ma insomma: punizioni, rigori, corner. Loro dopo le eliminatorie Australia e Ucraina, noi Argentina e Brasile, e scusate. E poi il pubblico, la partecipazione popolare, quel risvegliarsi entusiasmante di un sentimento comune, condiviso ovunque. Mai più successo, né so se mai più succederà. A parte che sono due volte che manco ci andiamo, ai Mondiali. E non è successo quasi niente».
Ecco, fosse capitato a voi, apriti cielo. Lo chiedo non a caso a lei, uno dei pochi sportivi (e non solo) capaci di dare le dimissioni per dignità; e dopo aver perso un Europeo all’ultimo respiro, contro la Francia, mica contro la Macedonia del Nord.
«Lasciamo stare quella storia, acqua passata. Ho fatto la mia scelta, bon. Poi la vita è andata avanti, va sempre avanti. Di sicuro, ecco, posso dire che oggi i media sono forse più esasperati, nella copertura di ogni fatto e nel dare enfasi a qualsiasi cosa, ma sono anche più buoni. Più buoni, sì. Di come rientrammo a casa nel ’74 vi ho detto, di quell’accoglienza a Malpensa. Devo ricordarvi i pomodori a Fiumicino dopo il secondo posto - secondo posto - a Mexico ’70? Sconfitti solo dal Brasile di Pelé e compagnia bella? Va là, va là...».
Le prime, anzi le ultime due cose che le vengono ancora in mente, Dino, capitano dei campioni del mondo più belli, bravi e amati.
«Mario Soldati che mi definì un cavaliere dell’Ottocento. Il presidente Pertini che con un telegramma mi chiese scusa, ammettendo che quella partita a scopone in aereo contro Causio e Bearzot l’avevamo persa per colpa sua, che aveva lasciato passare un sette azzardato dal Barone: il Vecio prese così il settebello e bon, finita, persa. Ci mise un po’ di tempo a riconoscerlo, il presidente, sul momento si arrabbiò, con me e un po’ con tutti. Però ragazzi, che soddisfazione».