Dino Zoff, mani da campione

Arrivato alla corte della Vecchia Signora a 30 anni, ha difeso la porta bianconera dal 1972 al 1983 facendo le fortune della Juventus
Dino Zoff, mani da campione

Torino diventa una città straniera una domenica di settembre del 1989. La Juve torna in pullman dopo aver battuto il Verona, ma la notte si fa definitiva. La squadra non lo sa, ma Sandro Ciotti alla Domenica Sportiva ha annunciato già la morte di Gaetano Scirea. Era il secondo di Dino Zoff, che non ha voluto altri vice dopo la tragedia per la stagione.

L’ARRIVO ALLA JUVE. Era diventato molto amico di Scirea, di quell'uomo che ha saputo segnare un'epoca con la discrezione dei migliori. Come Zoff. Una leggenda come Attila Sallustro, a Napoli, non aveva mai visto un campione così, diceva. Alla Juventus arriva nel 1972 che ha già trent'anni, carico di promesse e aspettative. "Non che fossi un ragazzino (...), avevo già detto molto di ciò che avevo da dire. A quell'età quasi tutti i miei colleghi imboccavano più o meno serenamente la parte finale della carriera. Io ricominciavo" scrive nella sua autobiografia, "Dura solo un attimo la gloria: la mia vita".
La Juve è un salto di qualità, una grande occasione. L'inserimento in bianconero non lo preoccupa, il lavoro rimane un mezzo di comunicazione universale che abbatte le barriere. Poi un friulano timido che nasconde una rabbia inquieta come lui, con i piemontesi si trova benissimo. Giocare da portiere l'ha aiutato, tra i pali non hai difese, non puoi concederti distrazioni, il tuo errore diventa errore per tutti, che pesa su tutti. È la maledizione degli interpreti di un ruolo a cui si chiede la perfezione come norma, come standard.
Al primo anno è scudetto subito. È una Juventus di corsa e di classe, che mette insieme Causio, Haller, Bettega. Zoff è decisivo all'Olimpico contro la Roma sul diagonale di Spadoni, famoso per una notevole somiglianza con l'attore Dustin Hoffman.


I NUMERI DI UN CAMPIONE. In bianconero ha giocato 330 partite consecutive. I suoi secondi, come Piloni o Agostinelli, si sono dovuti accontentare di farsi narrare l'evoluzione della squadra, gli anni del Trap, dagli occhi. Andare alla Juventus, ha scritto nel suo libro, era un po’ come essere assunto alla Fiat. E non solo per questioni di geografia. “Indossavi la maglia bianconera e immediatamente lo sentivi: non c'erano ghirigori, non c'era scampo” ha scritto. “Da quel momento contavano solo i risultati”.
Su Zoff, la Juve costruisce i successi dell'era Boniperti. In una squadra di soli italiani, ha alzato la Coppa Uefa del 1977 dopo la doppia finale contro l'Athletic Bilbao, che gioca con soli baschi. Il successo all'andata, 1-0 con gol di Tardelli a Torino, non rassicura. Il San Mames è una bolgia. Il colpo di testa di Bettega raffredda solo per poco i tifosi, perché pareggia subito Irureta, che da allenatore porterà il Deportivo La Coruna al suo primo successo di sempre nella Liga. Al 78' Carlos segna il 2-1 per i baschi, Zoff si volta verso Trapattoni. "Quanto manca?" gli chiede. Dodici minuti, gli indica il Trap e il gesto di apparente sconforto, per quanto rapido, si nota. Ma passano i minuti e il più grande portiere di tutti i tempi ritrova anche il sorriso.
La riapertura delle frontiere porta in bianconero un irlandese elegante, vellutato che in due anni regala giocate in pieno stile Juve. Il 16 maggio 1982 sa già di dover passare all'Inter, deve arrivare Platini, ma batte comunque contro il Catanzaro il rigore del ventesimo scudetto, la seconda stella. Il sesto della sua carriera in bianconero.

STILE JUVE. Il resto è storia di una parata sulla linea contro il Brasile, preludio al primo titolo mondiale nella quarta Coppa del Mondo della sua storia. È leggenda la partita a scopone sull'aereo con Bearzot e Pertini a suggellare la più importante delle 112 presenze in nazionale. Già campione d'Europa nel 1968, capace di rimanere imbattuto fino a 903 minuti nella Juventus, per 1143 in azzurro, mai espulso e mai squalificato, ha interpretato anche da allenatore bianconero e da ct della nazionale lo stile Juve, che per Zoff è semplicemente il decalogo dello sportivo professionista. Un uomo verticale, un portiere di sostanza. Un campione che ha cambiato l'immagine del portiere, il ruolo che più gli assomiglia. Il ruolo che porta alla gloria solo attraverso la responsabilità.

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