Golden Boy, ovvio. Ma anche Iron Boy. E i supereroi della Marvel non c’entrano. Perché se è vero che Pablo Páez Gavira detto Gavi ha appena conquistato il XX Trofeo Internazionale di Tuttosport riservato al miglior Under 21 dell’anno, è altrettanto innegabile come il centrocampista andaluso sia uno che non si rompe mai. Ecco spiegato il motivo per cui la stampa spagnola lo chiama sì “Chico de Oro” (traduzione letterale di Golden Boy in castigliano) ma pure “Chico de Hierro” visto che dal suo debutto in prima squadra è stato disponibile in 65 delle 69 gare disputate dal Barcellona (più 12 in Nazionale, sempre dal suo esordio con la “Roja”). Ha saltato solo 4 match e mica per infortunio: due a causa del Covid, altrettanti per squalifica.
Pablo, come ti senti con il Golden Boy 2022 in pugno?
«È un orgoglio ricevere questo prestigioso riconoscimento che altri grandi giocatori hanno vinto nella lunga storia del Golden Boy. E sono molto grato a tutti quelli che mi hanno aiutato a conquistarlo, i miei compagni, i miei allenatori e specialmente la mia famiglia».
Che effetto ti fa essere consacrato miglior giocatore Under 21 d’Europa, ovvero del mondo?
«È una motivazione in più per continuare a fare quello che sto facendo con il Barça e la Nazionale spagnola, però io continuo a essere lo stesso di prima, ho davanti a me ancora tanta strada da percorrere».
Un successo che giunge giusto dodici mesi dopo quello del tuo amico Pedri: trionfo blaugrana.
«Sì, abbiamo una grande generazione di giovani calciatori al Barça e il Golden Boy di Pedri ne è dimostrazione, frutto. È un giocatore spettacolare e ancor più come persona. È un grande amico che mi aiuta sempre in tutto ciò che può».
Siamo giunti alla ventesima edizione del Golden Boy. Prima di te e prima di Pedri, bisogna risalire al 2005 per trovare un altro giocatore del Barcellona vincitore del trofeo: un certo Messi.
«Queste sono parole grandi, troppo grandi. Messi è il miglior calciatore della storia e ancor oggi continua a dimostrarlo partita dopo partita. Quando l’argentino conquistò il Golden Boy io avevo poco più di un anno».
La “Pulce” rosarina ha lasciato il Barça l’anno scorso quando tu, diciassettenne, non facevi ancora parte della prima squadra.
«Purtroppo per poche settimane non ho avuto la “suerte” di giocare con lui. Resterà un mio rammarico. Come una “espina clavada” (ndr: una spina nel fianco). Mi avrebbe “encantado” poter stare in campo con lui. In ogni caso Leo è e resta un gran punto di riferimento per me».
Qual è stata la prima persona che ti ha comunicato di aver vinto il Golden Boy?
«Sono stati i miei genitori».
E come l’hanno vissuta papà Pablo e mamma Gema insieme a tua sorella maggiore Aurora?
«Erano molto felici, contentissimi, una grande allegria per tutta la mia famiglia. È un premio allo sforzo per i tanti anni che abbiamo vissuto separati, io lontano da loro, dal focolare domestico».
C’è stato un complimento che ti ha particolarmente toccato, non necessariamente da parte di una persona che fa parte del mondo del calcio?
«Tutti per me sono importanti, in special modo le congratulazioni dei miei compagni del Barça e della Nazionale spagnola senza dimenticare quelle degli amici».
Chi ti ha fatto debuttare in prima squadra l’anno scorso è stato l’ex allenatore blaugrana Ronald Koeman.
«Certo. E sarò sempre grato al tecnico olandese per quello che mi ha insegnato».
Raccontaci un po’ della tua infanzia e della tua carriera fulminante.
«Dopo i cosiddetti primi calci nel mio quartiere al club La Liara Balompié (ndr: dove l’avevano subito soprannominato Oliver Hutton, l’Holly supertalento calcistico della serie animata giapponese) e dopo due anni nel settore giovanile del Betis Siviglia, mi sono trasferito a Barcellona. Ero “encantado” con il calcio, però avevo solo undici anni, ero un bambino e in tutta sincerità ero un po’ apprensivo perché non sapevo bene cosa mi sarebbe aspettato in Catalogna. Ma i miei genitori mi hanno tranquillizzato. Entrambi mi hanno accompagnato a Barcellona, vivevamo inizialmente in un appartamento sulla Rambla».
I tuoi idoli d’infanzia?
«Iniziano tutti e due con la lettera “i” e sono entrambi centrocampisti: Iniesta e Isco».
Il tuo nome sportivo, in stile brasiliano, è Gavi. Deriva dal cognome paterno Gavira?
«Perché nella prima squadra infantile in cui ho giocato eravamo in due ad avere il nome Pablo. Così, onde evitare confusioni, l’allenatore decise di chiamarmi Gavi».
Provieni dalla stessa città andalusa, poco meno di 40.000 abitanti, in cui sono nati altri due celebri calciatori spagnoli: il difensore Jesús Navas (ndr: 36enne capitano del Siviglia, ex Manchester City) e il centrocampista Fabián Ruiz (27 anni, ex Napoli, dal 30 agosto scorso al Paris SG). Si respira forse un’aria speciale a Los Palacios y Villafranca?
«Sembra proprio così. Sia Jesús che Fabián sono grandi giocatori e specchi dove fissarmi a guardarli per le loro traiettorie sportive e anche come persone. Navas è campione del mundo con la Nazionale spagnola: magari potessimo diventarlo pure Fabián e io!».
Anche il compianto mancino José Antonio Reyes (ndr: ex Arsenal, Real, Atlético Madrid e Benfica, scomparso tre anni fa in un incidente stradale mentre viaggiava a 237 chilometri l’ora a bordo della sua potentissima Mercedes Brabus S550) era nato a una dozzina di chilometri da lì, a Utrera. Lo conoscevi personalmente?
«No, non ho avuto questa fortuna: ma quando tutti parlano bene di qualcuno, si può facilmente immaginare la gran persona che fosse».
Chi ti conosce bene, a cominciare dal tuo agente Iván De la Peña e dal tuo allenatore Xavi, sostiene che giochi con il piglio di un veterano nonostante tu sia ancora un teenager: mai sentito la pressione alla vigilia di una partita importante?
«Come no! La prima volta che ho provato quella sensazione è stata a San Siro alla vigilia della gara contro l’Italia nelle semifinali della Nations League. Ero molto nervoso e mi tremavano le gambe. Ma quando è cominciato il match e io ho toccato i primi palloni, mi sono sentito comodo, a mio agio».
Nonostante due supertalenti come te e Pedri, il Barça ha tuttavia fallito per il secondo anno consecutivo la qualifi cazione agli ottavi di Champions League. Perché, a tuo parere?
«Sono molti i fattori e, come ha detto mister Xavi, questa Champions è stata molto crudele con noi anche se alla fine i risultati sono lì, sotto gli occhi di tutti, e noi non abbiamo meritato di classificarci agli ottavi di finale. Adesso bisogna dare il massimo di noi stessi in Europa League perché al Barça si esige sempre di giocare per vincere tutti i titoli per i quali la squadra compete».
Qual è infine il tuo sogno personale per il Mondiale in Qatar che scatterà fra poco più di due settimane?
«Diventare campione del mondo, chiaro! Ritengo che il nostro gruppo sia molto buono, con tanta qualità e abbiamo molta fiducia in noi stessi. Magari poter far parte nella lista definitiva dei convocati del ct Luis Enrique perché c’è molta competizione. Già disputare il primo “Mundial” sarebbe un sogno per me».