Follia Ius Soli, Primavere parcheggio, norma Tavecchio: Italia, futuro da paura

Contro l’Albania gli azzurri cominciano l’Europeo che, dopo le mancate qualificazioni mondiali, impone una riflessione: fino a quando ci saranno ancora giocatori convocabili?

Un’Italia che resiste al terribile inverno demografico che imbianca inesorabilmente i capelli del Paese. Un’Italia che resiste all’invasione straniera che nel calcio non si ferma e che anzi viene alimentata da nuove norme. Un’Italia che resiste nonostante si possano importante stranieri ma non far diventare italiani quelli che in Italia già ci sono, ci vivono e, magari, ci giocano pure a pallone (oltre che gareggiare bene nell’atletica). Un’Italia che resiste nonostante non sia un Paese per giovani, neppure se vincono gli Europei di categoria o robe così. Se metti assieme tutti questi dati e li agiti per bene, vien fuori un cocktail dal retrogusto amarognolo che evoca la sinistra profezia di Philip Meyer secondo cui l’ultima copia cartacea del New York Times sarà acquistata nel 2043.

Ecco: per quanto ancora una Nazionale italiana parteciperà a un Europeo? O, meglio, come saranno le prossime squadre azzurre che vi prenderanno parte? Domanda che sembra provocatoria, perfino assurda se si considera che l’Italia è campione continentale in carica e che l’Under 17 ha appena vinto il proprio Europeo, seguendo l’esempio dell’Under 19 e con l’Under 20 vicecampione del mondo. Poi, però, la catena virtuosa si interrompe già fin dall’Under 21, come se qualcuno di colpo smettesse di comprare, prima ancora che di leggere, il New York Times. Le spiegazioni sono molte e tutte valide, e i numeri aiutano a comprendere.

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Il disastro della norma Tavecchio

La sintesi di tutte queste emergenze, ovviamente, rimanda allo scarso utilizzo degli italiani in campionato e dunque alla progressiva riduzione del numero di arruolabili per la Nazionale. Per porvi rimedio, l’allora presidente federale Carlo Tavecchio varò nel 2014 la riforma che prevedeva la rosa dei 25 con 4 calciatori formati nel club e altri 4 in Italia. Una decisione assunta pochi mesi dopo l’eliminazione ai gironi dal Mondiale in Brasile. Ebbene: da allora l’Italia il problema dell’eliminazione precoce da un Mondiale l’ha risolto, semplicemente perché non si è più qualificata, ma quello degli stranieri no. Anzi, la progressione negativa è stata costante: nel 2015/16 giocarono 54,94% di stranieri e 45,06 di italiani; nel 2020/21 si era già a 65,36 contro 34,64. L’anno scorso si è raggiunto il culmine con il 67,21 contro il 32,79. E quest’anno? Il totale medio si assesta a 65,03 di stranieri e 34,97 di italiani. Ma attenzione, perché se consideriamo solo le squadre che hanno partecipato alle Coppe europee, il dato dell’impiego di stranieri si impenna al 68,55 per cento. Una enormità, che certifica ancora una volta come la “norma Tavecchio” non abbia funzionato.

Deve essere proprio in seguito a questa consapevolezza, allora, che la Federazione ha dato il via libera alla possibilità, per le società della Serie A, di tesserare due giocatori extracomunitari senza il vincolo della sostituzione che valeva fino a questa stagione. Poi sì, nella lista dei 25 dovrebbero restarne sempre due, ma le società non avranno alcun vincolo né urgenza di cessione e, dunque, il numero di extracomunitari che resteranno nel “sistema calcio italiano” sarà inevitabilmente maggiore. A scapito di chi? Indovinate un po…

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La follia Italia, ancora senza Ius Soli

Poi ha ragione Gabriele Gravina quando sostiene che l’Italia era uno dei Paesi più in ritardo su questo ampliamento e che da oltre 10 anni arrivavano sollecitazioni: «L’Italia è tra i Paesi con norme più restrittive sul tesseramento degli extracomunitari, continuiamo a resistere ma il confronto non è più a livello nazionale, arrivano da più parti richieste di essere sempre più equiparati al mondo internazionale». Eh sì, perché il mondo cambia e corre, ma l’Italia resta un Giano bifronte che cammina verso il futuro ma con lo sguardo pervicacemente rivolto verso il passato. Restiamo fermi a un Paese che non considera lo ius soli, anche a livello sportivo, per ottusi interessi politici, molti giovani che si allenano nei nostri settori giovanili (chiedete all’Atalanta…) e i cui genitori vivono in Italia non possono essere tesserati fino ai 18 anni, peraltro con il rischio che la “formazione” che ricevono vada a vantaggio dei loro paesi d’origine.

L’Europeo, del resto, è una cartina di tornasole del “mischione” cui ci sta abituando il mondo: ben il 13 per cento delle rose è composto da giocatori nati altrove rispetto alla Nazionale in cui rappresentano. L’Italia ha Retegui e Jorginho che proseguono la tradizione degli oriundi, una tradizione romantica nata negli Anni 30 e che racconta soprattutto (ma non solo) di “italiani d’Argentina”. Tra gli italiani di “seconda generazione”, invece, c’è il solo Folorunsho: 26 anni, non esattamente un ragazzino, nato a Roma da genitori nigeriani.

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Le Primavera parcheggio e le Next Gen osteggiate

E poi c’è il problema dei giovani. Un mistero, più che un problema visto che arrivano al top sino all’Under 19 e poi spariscono (non tutti ma moltissimi) dai radar. Maurizio Viscidi, che sta svolgendo uno strepitoso lavoro come coordinatore delle giovanili azzurre, lamenta il fatto che i ragazzi vengano troppo irregimentati dagli schemi e che non si lasci spazio al talento. Il vero guaio, però, è che non li si fa giocare subito con i grandi e così si cercano soluzioni come ha fatto la Lega di Serie A con la Primavera: dal 2023/2024, a salire nelle annate successive, sarà necessario avere in distinta, dunque tra campo e panchina, almeno 5 giocatori local e 5 giocatori con requisiti per essere convocati nell’Italia, che sia la Nazionale maggiore o le giovanili.

Ma la Primavera è un “parcheggio” e, per di più, confligge con il progetto Under 23 a macchia di Leopardo. Insomma: con le pagine sempre più sgualcite, l’Italia del pallone resiste: ha ottimi professori che insegnano calcio (ben 5 allenatori italiani in questo Europeo), ma una strada coerente per uscire dall’incertezza del bosco la sta ancora cercando.

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Un’Italia che resiste al terribile inverno demografico che imbianca inesorabilmente i capelli del Paese. Un’Italia che resiste all’invasione straniera che nel calcio non si ferma e che anzi viene alimentata da nuove norme. Un’Italia che resiste nonostante si possano importante stranieri ma non far diventare italiani quelli che in Italia già ci sono, ci vivono e, magari, ci giocano pure a pallone (oltre che gareggiare bene nell’atletica). Un’Italia che resiste nonostante non sia un Paese per giovani, neppure se vincono gli Europei di categoria o robe così. Se metti assieme tutti questi dati e li agiti per bene, vien fuori un cocktail dal retrogusto amarognolo che evoca la sinistra profezia di Philip Meyer secondo cui l’ultima copia cartacea del New York Times sarà acquistata nel 2043.

Ecco: per quanto ancora una Nazionale italiana parteciperà a un Europeo? O, meglio, come saranno le prossime squadre azzurre che vi prenderanno parte? Domanda che sembra provocatoria, perfino assurda se si considera che l’Italia è campione continentale in carica e che l’Under 17 ha appena vinto il proprio Europeo, seguendo l’esempio dell’Under 19 e con l’Under 20 vicecampione del mondo. Poi, però, la catena virtuosa si interrompe già fin dall’Under 21, come se qualcuno di colpo smettesse di comprare, prima ancora che di leggere, il New York Times. Le spiegazioni sono molte e tutte valide, e i numeri aiutano a comprendere.

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