Chiesa, il più forte dell'Italia ma al bivio Juve: incognita azzurra perché...

Federico sempre più simbolo di una Nazionale in bilico nelle valutazioni: campione in carica, ma con pochi campioni. Uno è in panchina: basterà? Tre anni fa l’esterno bianconero era il Principe Azzurro. Oggi si porta invece dietro una serie di “ma”, insieme con le sue ansie di mercato

Siccome dopo sono “tutti bravi dal divano” (cit Dazn), qui si prova a esser bravi prima. Se possibile, prima che sia troppo tardi, perché all’Europeo manca poco, appena una settimana al debutto con l’Albania. È il momento dei consigli (non richiesti) a Spalletti. Un’avventura. Pericolosa non perché il ct sia permaloso, anzi. Tutt’altro. È felicemente tormentato dalle sue scelte, ma pure serenamente convinto di aver deciso al meglio. Decisioni che sono partite dal listone dei 30, dove qualcuno tipo Immobile non ha passato neanche le qualifiche. Altri come Pessina e Biraghi ci sono andati vicino, ma “vicino” non conta. E poi Locatelli e Bonaventura sono usciti al penultimo giro.

Gatti invece è rientrato alla penultima curva per la sfortuna di Acerbi e Scalvini. E ieri Provedel, Ricci e Orsolini hanno preparato la valigia per le vacanze, anziché il trolley per la Germania. Sono rimasti in 26, numero di convocati inaugurato nell’Europeo del 2021: quello itinerante ma soprattutto quello rinviato di un anno causa Covid, quello che è rimasto incastrato tra i due Mondiali (Russia 2018 e Qatar 2022) che gli azzurri hanno visto da spettatori.

Oggi chi è Federico Chiesa?

L’Europeo che la Nazionale ha iniziato a giocare in mascherina e poi si è smascherata in tutta la sua bellezza, con il trionfo di Wembley. Donnarumma che para il rigore decisivo e nemmeno se ne accorge. L’abbraccio e le lacrime tra Mancini e Vialli. Bonucci e Chiellini che fanno la trattativa Stato-Calcio per il bus scoperto. Insigne e ”o tir a gir”. Chiesa trascinatore dagli ottavi, quando segna il gol decisivo contro l’Austria, in poi.

Tre anni fa era il Principe Azzurro, oggi chi è Federico Chiesa? Sull’orlo dei ventisette anni, età che fa rima con maturità, lo juventino è l’azzurro più forte del mazzo, sulla carta. Sul campo, dipende. Ha classe, ma. È eclettico, ma. Segna, ma. Il suo prospetto informativo è un elenco di tanti pregi con allegati altrettanti “ma”. Senza offesa. Anzi, con la segreta speranza di venir clamorosamente smentiti all’Europeo, Chiesa ha qualità discutibili. Nel senso che se ne può discutere con ampiezza di giudizio e senza pregiudizi. In altri tempi, ne avremmo riempito i giornali. Ci fosse stata una biblioteca, anche digitale, l’altro giorno a Coverciano sarebbe stato interessante sfogliare le pagine ingiallite dei dibattiti sui cinque “10” ospitati a Casa Azzurri.

I dibattiti sui numeri 10

Oggi icone all’unanimità di talento, ieri e l’altroieri la gente si azzuffava in discussioni senza fine. Gianni Rivera fu il simbolo della “staffetta” con Mazzola. A quei tempi, cinquant’anni e passa fa, non c’erano cinque sostituzioni. Un paio bastavano e avanzavano. Così l’Italia si tormentava nel dualismo che opponeva fazioni di tifosi milanisti e interisti. Finì con la beffa dei sei minuti, tanto iconici quanto inutili, giocati da Rivera nella finale Mundial 1970. L’allenatore si abbreviava ct, commissario tecnico. Era Ferruccio Valcareggi, il “nonno” di Spalletti. Per quella staffetta e quella spicciolata di minuti, oggi l’avremmo definito “democristiano”.

Allora, no. Perché al governo c’era la Democrazia Cristiana e non era il caso di fare gli spiritosi, tanto meno sulla Nazionale. Qualche anno più tardi, con Giancarlo Antognoni, “unico 10” per la curva viola, la titolarità in azzurro non era un rettilineo senza curve. L’Italia giocava con il cosiddetto blocco Juve e si discuteva del fiorentino in contrapposizione a Zaccarelli, che era granata, quasi fosse un’Italia da geolocalizzare solo a Torino e zone limitrofe. Sfogliando i libri di storia, poi c’è stato Roberto Baggio che era un “9 e mezzo”, cioè l’evoluzione del talento sempre più vicino alla porta. E si discuteva anche di Baggio, come poi di Totti e Del Piero. Uno dei due o tutti e due? A beneficio dei giovani che non possono ricordare cronache d’epoca, sia chiaro che - non solo nel calcio - la storia poi la fanno i vincitori.

Quindi Rivera sarebbe stato meglio titolare perché l’Italia perse la finale. Antognoni andava bene perfino rimpiazzato per infortunio da un difensore (Bergomi!) quando arrivò il titolo del 1982. C’è chi ci ha fatto una serie tv, Baggio, per sventolare il codino in faccia agli allenatori che non l’avevano compreso. Poi c’è Del Piero che ha sempre sorriso a distanza. E infine Totti che pure lui ci ha realizzato una serie, per metterci di mezzo proprio Spalletti, anche se la trama era nazionalpopolare, la location romanesca giallorossa e di azzurro Italia non si notava quasi nulla. Comunque se ne parlava. Si discuteva. Ci si divideva quando ancora non esisteva il verdetto di opinione “divisiva”.

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Su Chiesa tutto tace. E il mercato...

Su Chiesa, no. Tutto tace. Il miglior azzurro è un’incognita che ondeggia tra jolly vincente e mistero inquietante. Questo accade perché di Spalletti ci si fida. Giusto. Tanto che nemmeno si parla di un problema che in altri tempi (e un altro calcio) sarebbe stato da titoloni, anziché didascalie: a un anno dalla fine del contratto, lo juventino è al bivio. Se rinnova, resta in bianconero. Sennò, va sul mercato. E va proprio verso la Roma, che però attende - ovviamente - che il prezzo si abbassi con il tempo che passa.

L’Europeo incombe. Per Chiesa non si tratta della situazione psicologica ideale. Chissà. Gioca a destra o sinistra, esterno o attaccante, tridente o mezzapunta. Rinnova o va via. L’importante è che non se ne parli. Ma evitare un problema non è mai soluzione del problema. Anche perché non si capisce chi sarebbe l’eventuale alternativa.

Le alternative, Di Lorenzo-Cambaso e il 'caso' Fagioli

Né alla Juve: Yildiz? Né in Nazionale: Raspadori? Conviene fidarsi della (apparente) serenità di Luciano Spalletti. Che peraltro, dall’altra parte del campo, ha in Di Lorenzo un punto di forza indebolito da problematiche simili. Non è in forma, e si è visto anche nell’amichevole contro la Turchia. Non è sereno, l’ha detto Giuffredi, il suo procuratore, facendo la voce grossa (anche troppo) per chiederne la cessione immediata. Intreccia il suo destino proprio con Chiesa se è vero che Giuntoli, protetto dalla privacy degli occhiali scuri, sbircia la possibilità di uno scambio, con conguagli tutti da valutare e con l’anticipo di un dualismo, Di Lorenzo-Cambiaso, che si può ammorbidire solo grazie alla generosissima duttilità dell’ex Bologna.

Il mosaico dei problemi potrebbe proseguire, intrecciato tra calcio e calciomercato, campionato e Nazionale. Ma si tende a evitare. Si prova a sognare. Le polemiche su Fagioli, un po’ di etica con spruzzata di populismo, sono durate qualche giorno. Ora che il ragazzo è nei 26, si può perfino provare a nobilitarlo con l’etichetta di “Çalhano?lu italiano”. Chissà… Per il resto, valgono due considerazioni. La prima: non esiste Nazionale, nemmeno la Francia di Rabiot in bilico di trattativa, che non abbia problemi extra Europeo.

La seconda considerazione è più amara. Ai tempi dei fantastici “10” visti l’altro giorno a Coverciano, imperversavano le discussioni non solo per guizzi giornalistici, ma anche perché ruotavano attorno a campioni. Campioni con la maiuscola. Oggi, diciamolo prima di esser bravi dal divano ma pure prima che sia troppo tardi, questa Italia è sì Campione in carica, ma con pochi campioni in squadra. Ce n’è uno in panchina: basterà?

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Siccome dopo sono “tutti bravi dal divano” (cit Dazn), qui si prova a esser bravi prima. Se possibile, prima che sia troppo tardi, perché all’Europeo manca poco, appena una settimana al debutto con l’Albania. È il momento dei consigli (non richiesti) a Spalletti. Un’avventura. Pericolosa non perché il ct sia permaloso, anzi. Tutt’altro. È felicemente tormentato dalle sue scelte, ma pure serenamente convinto di aver deciso al meglio. Decisioni che sono partite dal listone dei 30, dove qualcuno tipo Immobile non ha passato neanche le qualifiche. Altri come Pessina e Biraghi ci sono andati vicino, ma “vicino” non conta. E poi Locatelli e Bonaventura sono usciti al penultimo giro.

Gatti invece è rientrato alla penultima curva per la sfortuna di Acerbi e Scalvini. E ieri Provedel, Ricci e Orsolini hanno preparato la valigia per le vacanze, anziché il trolley per la Germania. Sono rimasti in 26, numero di convocati inaugurato nell’Europeo del 2021: quello itinerante ma soprattutto quello rinviato di un anno causa Covid, quello che è rimasto incastrato tra i due Mondiali (Russia 2018 e Qatar 2022) che gli azzurri hanno visto da spettatori.

Oggi chi è Federico Chiesa?

L’Europeo che la Nazionale ha iniziato a giocare in mascherina e poi si è smascherata in tutta la sua bellezza, con il trionfo di Wembley. Donnarumma che para il rigore decisivo e nemmeno se ne accorge. L’abbraccio e le lacrime tra Mancini e Vialli. Bonucci e Chiellini che fanno la trattativa Stato-Calcio per il bus scoperto. Insigne e ”o tir a gir”. Chiesa trascinatore dagli ottavi, quando segna il gol decisivo contro l’Austria, in poi.

Tre anni fa era il Principe Azzurro, oggi chi è Federico Chiesa? Sull’orlo dei ventisette anni, età che fa rima con maturità, lo juventino è l’azzurro più forte del mazzo, sulla carta. Sul campo, dipende. Ha classe, ma. È eclettico, ma. Segna, ma. Il suo prospetto informativo è un elenco di tanti pregi con allegati altrettanti “ma”. Senza offesa. Anzi, con la segreta speranza di venir clamorosamente smentiti all’Europeo, Chiesa ha qualità discutibili. Nel senso che se ne può discutere con ampiezza di giudizio e senza pregiudizi. In altri tempi, ne avremmo riempito i giornali. Ci fosse stata una biblioteca, anche digitale, l’altro giorno a Coverciano sarebbe stato interessante sfogliare le pagine ingiallite dei dibattiti sui cinque “10” ospitati a Casa Azzurri.

I dibattiti sui numeri 10

Oggi icone all’unanimità di talento, ieri e l’altroieri la gente si azzuffava in discussioni senza fine. Gianni Rivera fu il simbolo della “staffetta” con Mazzola. A quei tempi, cinquant’anni e passa fa, non c’erano cinque sostituzioni. Un paio bastavano e avanzavano. Così l’Italia si tormentava nel dualismo che opponeva fazioni di tifosi milanisti e interisti. Finì con la beffa dei sei minuti, tanto iconici quanto inutili, giocati da Rivera nella finale Mundial 1970. L’allenatore si abbreviava ct, commissario tecnico. Era Ferruccio Valcareggi, il “nonno” di Spalletti. Per quella staffetta e quella spicciolata di minuti, oggi l’avremmo definito “democristiano”.

Allora, no. Perché al governo c’era la Democrazia Cristiana e non era il caso di fare gli spiritosi, tanto meno sulla Nazionale. Qualche anno più tardi, con Giancarlo Antognoni, “unico 10” per la curva viola, la titolarità in azzurro non era un rettilineo senza curve. L’Italia giocava con il cosiddetto blocco Juve e si discuteva del fiorentino in contrapposizione a Zaccarelli, che era granata, quasi fosse un’Italia da geolocalizzare solo a Torino e zone limitrofe. Sfogliando i libri di storia, poi c’è stato Roberto Baggio che era un “9 e mezzo”, cioè l’evoluzione del talento sempre più vicino alla porta. E si discuteva anche di Baggio, come poi di Totti e Del Piero. Uno dei due o tutti e due? A beneficio dei giovani che non possono ricordare cronache d’epoca, sia chiaro che - non solo nel calcio - la storia poi la fanno i vincitori.

Quindi Rivera sarebbe stato meglio titolare perché l’Italia perse la finale. Antognoni andava bene perfino rimpiazzato per infortunio da un difensore (Bergomi!) quando arrivò il titolo del 1982. C’è chi ci ha fatto una serie tv, Baggio, per sventolare il codino in faccia agli allenatori che non l’avevano compreso. Poi c’è Del Piero che ha sempre sorriso a distanza. E infine Totti che pure lui ci ha realizzato una serie, per metterci di mezzo proprio Spalletti, anche se la trama era nazionalpopolare, la location romanesca giallorossa e di azzurro Italia non si notava quasi nulla. Comunque se ne parlava. Si discuteva. Ci si divideva quando ancora non esisteva il verdetto di opinione “divisiva”.

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