Inghilterra, inizia il dopo Southgate: c’è la suggestione Klopp

È stato un ct poco amato dai tifosi, eppure è riuscito a ridare dignità a una squadra che, spesso, sapeva soltanto deludere

Dignità, ch'è sì cara. La dignità di Gareth Southgate, dimissionario da ieri, rimasta anche negli insulti di Wolverhampton, due anni fa, dopo lo 0-4 con l’Ungheria, e nella pioggia di bicchieri e birre di Colonia, il 25 giugno. "Non sai quel che fai", "domani ti cacciano" e così via, e fu significativo leggere su almeno un quotidiano che quello 0-4 rappresentò finalmente l’occasione per i tifosi di prendersela con lui. ‘Finalmente’, perché al tifoso inglese medio, come tutti incline più ad ascoltare la pancia che la testa, Southgate non era mai piaciuto: semi-zittiti dal percorso dell’estate precedente, conclusosi nella finale europea e nella sconfitta ai rigori contro l’Italia per la quale i colpevoli più evidenti erano parsi Rashford, Sancho e Saka, autori dei tre calci sbagliati o parati, i tifosotti si erano tenuti caldi fino alla prima occasione vera. Southgate in questi casi non ha mai mostrato emozioni particolari se non quelle che un inglese fiero di esserlo, come ha ribadito ieri nel comunicato di addio, può provare: la delusione di aver deluso, la rabbia di non aver vinto, la frustazione, classica dei ct, di non avere presto un’altra partita per rimediare.

Il percorso di Southgate all'Inghilterra

Nei suoi quasi otto anni la Nazionale è cresciuta enormemente: ora c’è disappunto se non arriva una finale, mentre fino a pochi anni fa si temeva lo scivolone già nei gironi e si tremava per sfide di livello molto più basso. Ci sono state, è innegabile, versioni dell’Inghilterra di ottimo livello, fermate sul più bello (o prima) da episodi ed errori, ma mai c’erano state questa continuità e fiducia da parte dei vertici della Federazione, ambiente di cui Southgate ha fatto parte per quasi undici anni, a partire dal ruolo nell’Under 21 in cui ha visto crescere alcuni dei giocatori che si è portato fino a Berlino. In 102 partite, 61 vittorie, 24 pareggi e 17 sconfitte ma sono numeri, e come i voti non si contano ma si pesano: le poche partite decisive finite male trascinano verso il basso il giudizio, così come le accuse, alcune ragionevoli, di indecisione nella scelta dei moduli, di eccesso di fedeltà, in assoluto e a partita in corso, verso alcuni giocatori, di eccesso di prudenza. Ma siamo alle solite: se perdi sei uno che non sa decidersi, se vinci sei uno che ha flessibilità, così come c’è una forte fetta di opinione pubblica e media che, se tieni fuori la superstar, è pronta a dirti che il talento non si può rimpiazzare.

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Southgate e le doti innate da leader

Allora, visto che non va bene a prescindere, tanto vale decidere con la propria testa, e Southgate - in armonia con l’assistente Steve Holland, 54 anni, uno che allena da quando ne aveva 22 ed era vice di Conte al Chelsea - lo ha sempre fatto prendendosi la responsabilità di quanto accaduto: quando ha sfidato, con più delusione che rabbia, i bicchieri di Colonia e quando con la stessa grinta ha urlato "one more", un’altra vittoria e portiamo a casa il trofeo, dopo la semifinale di Dortmund. La profondità di atteggiamento è sempre stata un dato di fatto e non un’opinione, così come la sua capacità di staccarsi dalla media: da calciatore, fu soprannominato Nord dall’assistente allenatore del Crystal Palace, Wally Downes, perché il modo di parlare, corretto, carismatico e ben impostato, ricordava quello del presentatore tv Denis Norden, e anche per queste sue peculiarità Southgate era un capitano nato, dotato di fascia non appena le circostanze, al Palace, all’Aston Villa, al Middlesbrough, lo permisero, e leader che alzava la voce solo quando era necessario, anche perché dava sempre l’impressione di essere il primo a non ritenersi credibile nella veste di urlatore.

Inghilterra, tutti i nomi per il dopo Southgate

Per il futuro spuntano le prime ipotesi, come Graham Potter (fermo dopo la deludente esperienza con il Chelsea) e Eddie Howe (ma il ceo del Newcastle, Darren Eales, ha fatto sapere che la scorsa estate aveva firmato un prolungamento: "Combatteremo per tenerlo, ha detto"), mentre qualcuno si spinge all’ipotesi Jurgen Klopp, che nei giorni scorsi ha ribadito di voler stare fermo rifiutando una proposta della Nazionale statunitense. E Southgate? Spunterà magari a qualche partita del Bromley, neopromosso in quarta serie allenato da Andy Woodman, compagno nelle giovanili del Palace, con cui nel 2004 scrisse il libro Woody & Nord: A Football Friendship, che vinse il premio di migliore autobiografia ai British Sports Book Awards.

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Dignità, ch'è sì cara. La dignità di Gareth Southgate, dimissionario da ieri, rimasta anche negli insulti di Wolverhampton, due anni fa, dopo lo 0-4 con l’Ungheria, e nella pioggia di bicchieri e birre di Colonia, il 25 giugno. "Non sai quel che fai", "domani ti cacciano" e così via, e fu significativo leggere su almeno un quotidiano che quello 0-4 rappresentò finalmente l’occasione per i tifosi di prendersela con lui. ‘Finalmente’, perché al tifoso inglese medio, come tutti incline più ad ascoltare la pancia che la testa, Southgate non era mai piaciuto: semi-zittiti dal percorso dell’estate precedente, conclusosi nella finale europea e nella sconfitta ai rigori contro l’Italia per la quale i colpevoli più evidenti erano parsi Rashford, Sancho e Saka, autori dei tre calci sbagliati o parati, i tifosotti si erano tenuti caldi fino alla prima occasione vera. Southgate in questi casi non ha mai mostrato emozioni particolari se non quelle che un inglese fiero di esserlo, come ha ribadito ieri nel comunicato di addio, può provare: la delusione di aver deluso, la rabbia di non aver vinto, la frustazione, classica dei ct, di non avere presto un’altra partita per rimediare.

Il percorso di Southgate all'Inghilterra

Nei suoi quasi otto anni la Nazionale è cresciuta enormemente: ora c’è disappunto se non arriva una finale, mentre fino a pochi anni fa si temeva lo scivolone già nei gironi e si tremava per sfide di livello molto più basso. Ci sono state, è innegabile, versioni dell’Inghilterra di ottimo livello, fermate sul più bello (o prima) da episodi ed errori, ma mai c’erano state questa continuità e fiducia da parte dei vertici della Federazione, ambiente di cui Southgate ha fatto parte per quasi undici anni, a partire dal ruolo nell’Under 21 in cui ha visto crescere alcuni dei giocatori che si è portato fino a Berlino. In 102 partite, 61 vittorie, 24 pareggi e 17 sconfitte ma sono numeri, e come i voti non si contano ma si pesano: le poche partite decisive finite male trascinano verso il basso il giudizio, così come le accuse, alcune ragionevoli, di indecisione nella scelta dei moduli, di eccesso di fedeltà, in assoluto e a partita in corso, verso alcuni giocatori, di eccesso di prudenza. Ma siamo alle solite: se perdi sei uno che non sa decidersi, se vinci sei uno che ha flessibilità, così come c’è una forte fetta di opinione pubblica e media che, se tieni fuori la superstar, è pronta a dirti che il talento non si può rimpiazzare.

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