Pagina 1 | Mancini-Veiga, altri schiaffi dall’Arabia. Diventeremo il nuovo Sud America?

No, non sarebbe bastata la Superlega, ma certo sarebbe stata molto utile a difendere il calcio europeo dall’assalto miliardario del mondo arabo. Come suonano ridicoli gli slogan sul «calcio del popolo» oggi che un talento spagnolo di ventun anni, con una assai promettente carriera davanti a sé, snobba la squadra campione d’Italia e potenziale protagonista della Champions League per andare all’Al-Ahli, squadra neopromossa in Saudi League.

Come risultano stonati i richiami alle grandi tradizioni del calcio oggi che il ct della nazionale italiana abbandona la panchina per andare su quella dell’Arabia Saudita. Come sembra inutile l’astiosa retorica delle istituzioni, oggi che servirebbero delle norme internazionali a tutelare il calcio e quell’etica tanto sbandierata allora. Gli ultimi due schiaffi arabi sono arrivati a noi, ma sta per prenderne uno anche il Liverpool e, più o meno, è toccato a tutti in Europa, il cui calcio viene depauperato di talento e personaggi, drenati in Premier e Saudi League.

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La Saudi League è il pokerista che ha troppe fiches per poter perdere

Quelli della Superlega l’avevano detto e non godono moltissimo nell’aver avuto ragione, perché - a questo punto - il rischio è che se la Corte di Giustizia Europea dovesse aprire la possibilità di creare un qualche torneo alternativo a quelli dell’Uefa, questo diventi un progetto arabo e non europeo. Perché il problema è quello che ha il campione di poker quando gioca contro uno molto (ma molto) più ricco di lui: non importa quanto sia bravo, quello ricco può rilanciare all’infinito e alla fine lo frega. La Superlega era un progetto di sport e business, era un’idea di una nuova competizione che garantisse ricavi ed equilibrio finanziario. La Saudi League è un progetto politico con un fondo sovrano alle spalle, nessun limite di spesa e nessuna ambizione di sostenibilità economica. La Saudi League è il pokerista che ha troppe fiches per poter perdere. E quindi?

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C’è stato un momento storico in cui gli arabi eravamo noi

Quindi non resta che sedersi e vedere come va a finire il duello fra soldi e passione. Perché se il calcio europeo ha una speranza di evitare la totale marginalizzazione è legato al sentimento dei tifosi la cui fedeltà allo stemma e alla maglia potrebbe trasformarsi nel più impenetrabile baluardo per i soldi arabi. Mi prendi Salah? Beh, io tifo Liverpool, non Momo, quindi tiferò per quello che prenderà il suo posto, non importa se più scarso, l’importante è che abbia la maglia rossa. Se i tifosi europei reagissero così, fregandosene di perdere i talenti più tecnici e divertenti, ma restando aggrappati all’idea del club, della loro comunità, del loro stadio, allora il calcio del vecchio continente avrebbe un futuro. Ma il rischio è che se i campioni vanno tutti altrove (Premier o Saudi League), le partite più godibili si giochino altrove, succhiando comunque una parte dell’attenzione e delle risorse, perché va bene la fede, ma il calcio, pur avendo molte componenti della religione, resta anche e soprattutto un divertimento.

Certo, imparare a distinguere le squadre saudite e i loro nomi può essere complicato, così come provare a proiettare qualche sentimento su qualcosa che non ha storia, ma chissà... D’altronde vale anche la pena ricordare che c’è stato un momento storico in cui gli arabi eravamo noi e andavamo a razziare qualsiasi campione o campioncino del continente sudamericano, impoverendo campionati e club storici che, da nomi altisonanti del calcio mondiale, si sono trasformati in fabbriche di talenti da esportare. Se dovessimo finire anche noi così, possiamo consolarci vedendo la passione con cui argentini, uruguaiani e brasiliani seguono ancora il loro club, dove transitano idoli fugaci, ma l’amore non passa mai.

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No, non sarebbe bastata la Superlega, ma certo sarebbe stata molto utile a difendere il calcio europeo dall’assalto miliardario del mondo arabo. Come suonano ridicoli gli slogan sul «calcio del popolo» oggi che un talento spagnolo di ventun anni, con una assai promettente carriera davanti a sé, snobba la squadra campione d’Italia e potenziale protagonista della Champions League per andare all’Al-Ahli, squadra neopromossa in Saudi League.

Come risultano stonati i richiami alle grandi tradizioni del calcio oggi che il ct della nazionale italiana abbandona la panchina per andare su quella dell’Arabia Saudita. Come sembra inutile l’astiosa retorica delle istituzioni, oggi che servirebbero delle norme internazionali a tutelare il calcio e quell’etica tanto sbandierata allora. Gli ultimi due schiaffi arabi sono arrivati a noi, ma sta per prenderne uno anche il Liverpool e, più o meno, è toccato a tutti in Europa, il cui calcio viene depauperato di talento e personaggi, drenati in Premier e Saudi League.

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