Arsenal e Tottenham insidiano il dominio di Manchester: Londra torna grande

Dopo anni trascorsi a guardare United e City spartirsi trofei, la capitale inglese tenta di riprendersi il centro della scena del football
Arsenal e Tottenham insidiano il dominio di Manchester: Londra torna grande© Getty Images

“Londra è Londra,  l’Inghilterra è un'altra cosa”. Una frase che chi s’intende di cose inglesi avrà sentito pronunciare centinaia di volte dagli stessi sudditi di Re Carlo III. Questo perché il concetto di una Londra separata e distinta dal resto della nazione - manco fosse una sorta di citta Stato - è profondamente radicato nella cultura inglese tanto quanto il tè con i biscotti delle 5 del pomeriggio, la pinta al pub all’uscita dall’ufficio o il Sunday Roast domenicale. In un Paese che da sempre rimprovera alla sua internazionale e super glamour capitale di essere eccessivamente ‘Londrocentrica’ e distante anni luce dalla pancia della nazione, il football - simbolo supremo e principale passatempo della gente comune e delle classi meno abbienti – ha invece rappresentato sin dalla sua nascita lo strumento prioritario di riscatto della ‘provincia’ più anonima, quella diversa e lontana in tutto e per tutto dalla celebre capitale.

Londra non domina sul Football

Della storia del football dei Maestri, Londra è, ovviamente, un pezzo importante: per farsene un'idea basta contare le squadre di prima fascia che nella capitale inglese hanno la propria sede. Importante, dunque, ma non quanto lo sia per quella generale della nazione. E infatti, lo sport più democratico e popolare del mondo ha avuto il merito storico di far emergere dalla pancia dell’Inghilterra grandi città come Manchester, Liverpool e Birmingham, ma anche Sheffield, Preston, Leeds, Newcastle, Sunderland, Wolverhampton, Ipswich o la Nottingham del mito Brian Clough. Insomma, del calcio con le tre P - quelle di Pint, Pie e Program - Londra non è mai stata la padrona assoluta.

Manchester pigliatutto 

E senza scomodare almanacchi o libri di storia, ma solo soffermandosi sulle vicende più recenti - quelle a marchio Premier League – è impossibile non notare come dalla stagione 1992-1993 in poi (la prima dell’attuale Premier), la potente capitale è stata surclassata dalla operaia Manchester in termini di successi: 20 su 31 i titoli finiti nella città del nord dell’Inghilterra (13 allo United e 7 al City), contro gli 8 festeggiati in quel di Londra (5 dal Chelsea e 3 dall’Arsenal degli Invincibles di Wenger). Insomma, a parte la felicissima parentesi del Chelsea di Abramovich, la capitale inglese è stata del tutto estromessa dal tavolo dei più forti, accontentandosi negli ultimi anni – quelli del dominio del City di Guardiola - di un ruolo da coprotagonista.

La voglia di riemergere della capitale

Un ruolo da cui, però, già dalla scorsa stagione, e in modo ancora più evidente da quella in corsa, Londra sta cercando con forza di emanciparsi. E se nella scorsa annata era stato l’Arsenal a far sentire forte il grido di battaglia della capitale che vuol recuperare la propria centralità anche nel calcio, quest’anno a quello dei Gunners si è aggiunto il vocione imponente di Ange Postecoglou e del suo sorprendente Tottenham. Se a giugno avessimo detto anche al più ottimista fra i tifosi degli Spurs che a fino ottobre Son & Co. avrebbero guidato in solitaria la classifica della Premier, avremmo ricevuto come risposta una bella fragorosa risata.

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 Spurs non più "Spursy"

Eppure, alle porte di novembre la squadra splendidamente guidata da ‘Big Ange’ - l’uomo spuntato dal nulla e diventato in pochissimo tempo il personaggio più interessante di questa nuova Premier League – è ancora imbattuta in campionato e veleggia in testa alla classifica, mostrando a ogni uscita un calcio brillante, coraggioso e depurato da quel timore di fondo che, in oltre sessant’anni senza un titolo, è diventato un problema cronico dei londinesi in maglia bianca. E infatti, fra i tanti meriti riconosciuti al lavoro fatto fino a oggi da Postecoglou ve n’è uno in particolare che descrive in modo molto singolare questo evidente cambiamento degli Spurs nell’affrontare la battaglia, nell’intrepretarne i momenti e comandarne gli eventi. Proprio grazie alla nuova mentalità che il tecnico australiano è riuscito a trasmettere, il Tottenham ha smesso di essere "Spursy". Un termine, quest’ultimo, utilizzato in modo parecchio sarcastico per definire quella che nel tempo è diventata la caratteristica endemica dei londinesi: una certa fragilità che li ha storicamente condotti a sgretolarsi di fronte alla prospettiva di un traguardo e a deludere costantemente le aspettative.

 Il Tottenham capolista di "Big Ange"

L’arrivo dell’allenatore australiano ha determinato un’evidente conversione nel modo di pensare e interpretare il gioco: gli Spurs non hanno più paura né di comandare e nemmeno di subire. I londinesi non si abbassano mai, ma applicano un pressing asfissiante e difendono attaccando. La squadra gioca un gran calcio, affidandosi soprattutto alla grande corsa degli esterni e ai calciatori di maggior talento come Maddison, che a Londra sta finalmente confermando di essere il campione che a Leicester si era solo intravisto, o Son, calatosi in modo quasi naturale nel nuovo ruolo di prima punta, lì a sostituire la più grande leggenda del club, l’amico passato al Bayern Monaco, Harry Kane. Difficile prevedere dove davvero questo Tottenham possa arrivare, ma al momento per Postecoglou questo conta meno di altre cose: «Io me la sto godendo e voglio che i miei giocatori se la godano- ha detto alla fine della gara vinta con il Crystal Palace -. Ma non perché siamo primi, ma perché stiamo vivendo il sogno. Giochiamo per un club fantastico e facciamo quello che ci piace, il resto è solo questione di onorare la responsabilità che ci è stata data. Per me l’importante è far gioire i tifosi, dar loro un po’ di fiducia e speranza. È per questo che esistono i club calcistici. Dobbiamo continuare ad alimentare quelle emozioni».

Arsenal, l'esplosione della meglio gioventù

Se il grande inizio del Tottenham è arrivato come una grande sorpresa per tutti, lo stesso non si può dire per tutto quanto di buono ha fatto l’Arsenal in questi primi tre mesi della nuova stagione. La scorsa annata era finita con un forte amaro in bocca: i Gunners avevano accarezzato a lungo l’idea di tornare a vincere la Premier dopo un ventennio di delusioni e anonimato, ma alla fine avevano dovuto subire il ritorno prepotente del Manchester City, dimostratosi alla lunga più forte e più esperto. Quest’anno, però, dopo una grande campagna acquisti che ha portato alla corte di Arteta gente del calibro di Rice, Havertz, Timber, e l’ex portiere del Brentford, Raya, i Gunners si sono presentati con la sicurezza di chi sa di aver colmato, almeno da punto di vista della qualità della rosa, il gap con il City. Questo anche grazie allo sbocciare improvviso della meglio gioventù, quella su cui la società da anni stava costruendo il proprio futuro: i vari Saka, Martinelli, Smith Rowe, Saliba, Nelson, Nketiah e lo stesso Martin Odegaard, sono finalmente diventati grandi, e sotto la guida di Arteta hanno già fatto capire che quel futuro brillante di cui si è parlato per anni è arrivato. Con la vittoria casalinga sullo Sheffield United i Gunners sono tornati a meno due dalla capolista Tottenham, tenendo intatta l’imbattibilità in campionato. Il City, ormai, non è più la Kryptonite che era stata nelle scorse annate, e le due vittorie (una nel Community Shield e l’altra in campionato) ottenute contro i campioni d’Europa sono lì a dimostrarlo.

Un fenomeno generazionale

La squadra di Arteta sembra giocare con una consapevolezza nuova, come se sapesse di poter diventare un fenomeno generazionale, una realtà a lungo termine con l’obiettivo di dominare sia in patria che fuori. L’età media delle formazioni messe in campo dal tecnico basco in questa stagione è la seconda più bassa della Premier: 25 anni. Ancora più impressionante è l’età media della rosa a disposizione di Arteta: solo 22 anni. Insomma, qualità futuribile e valore di mercato che aumenta gara dopo gara: il roster dei Gunners vale l’impressionante cifra di 1,1 miliardi di euro (dati Transfermarkt). E così, dopo anni di oblio e un dominio quasi assoluto della fredda Manchester, grazie al Tottenham e soprattutto all’Arsenal, Londra può nuovamente sognare un ritorno al centro del villaggio calcistico di Sua Maestà.

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“Londra è Londra,  l’Inghilterra è un'altra cosa”. Una frase che chi s’intende di cose inglesi avrà sentito pronunciare centinaia di volte dagli stessi sudditi di Re Carlo III. Questo perché il concetto di una Londra separata e distinta dal resto della nazione - manco fosse una sorta di citta Stato - è profondamente radicato nella cultura inglese tanto quanto il tè con i biscotti delle 5 del pomeriggio, la pinta al pub all’uscita dall’ufficio o il Sunday Roast domenicale. In un Paese che da sempre rimprovera alla sua internazionale e super glamour capitale di essere eccessivamente ‘Londrocentrica’ e distante anni luce dalla pancia della nazione, il football - simbolo supremo e principale passatempo della gente comune e delle classi meno abbienti – ha invece rappresentato sin dalla sua nascita lo strumento prioritario di riscatto della ‘provincia’ più anonima, quella diversa e lontana in tutto e per tutto dalla celebre capitale.

Londra non domina sul Football

Della storia del football dei Maestri, Londra è, ovviamente, un pezzo importante: per farsene un'idea basta contare le squadre di prima fascia che nella capitale inglese hanno la propria sede. Importante, dunque, ma non quanto lo sia per quella generale della nazione. E infatti, lo sport più democratico e popolare del mondo ha avuto il merito storico di far emergere dalla pancia dell’Inghilterra grandi città come Manchester, Liverpool e Birmingham, ma anche Sheffield, Preston, Leeds, Newcastle, Sunderland, Wolverhampton, Ipswich o la Nottingham del mito Brian Clough. Insomma, del calcio con le tre P - quelle di Pint, Pie e Program - Londra non è mai stata la padrona assoluta.

Manchester pigliatutto 

E senza scomodare almanacchi o libri di storia, ma solo soffermandosi sulle vicende più recenti - quelle a marchio Premier League – è impossibile non notare come dalla stagione 1992-1993 in poi (la prima dell’attuale Premier), la potente capitale è stata surclassata dalla operaia Manchester in termini di successi: 20 su 31 i titoli finiti nella città del nord dell’Inghilterra (13 allo United e 7 al City), contro gli 8 festeggiati in quel di Londra (5 dal Chelsea e 3 dall’Arsenal degli Invincibles di Wenger). Insomma, a parte la felicissima parentesi del Chelsea di Abramovich, la capitale inglese è stata del tutto estromessa dal tavolo dei più forti, accontentandosi negli ultimi anni – quelli del dominio del City di Guardiola - di un ruolo da coprotagonista.

La voglia di riemergere della capitale

Un ruolo da cui, però, già dalla scorsa stagione, e in modo ancora più evidente da quella in corsa, Londra sta cercando con forza di emanciparsi. E se nella scorsa annata era stato l’Arsenal a far sentire forte il grido di battaglia della capitale che vuol recuperare la propria centralità anche nel calcio, quest’anno a quello dei Gunners si è aggiunto il vocione imponente di Ange Postecoglou e del suo sorprendente Tottenham. Se a giugno avessimo detto anche al più ottimista fra i tifosi degli Spurs che a fino ottobre Son & Co. avrebbero guidato in solitaria la classifica della Premier, avremmo ricevuto come risposta una bella fragorosa risata.

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