Il nuovo Pablito, il DNA Juve, l'eterna bellezza: Schillaci, il ricordo di Totò

Era dal Mundial di Spagna ‘82 che il calcio italiano attendeva un simbolo così popolare e condiviso. La sua storia torinese lo rese ancora più vicino a Paolo Rossi

Lo abbiamo atteso come un’epifania, come una terra promessa, come una nuova rivelazione. Da quell’11 luglio 1982, in quella notte di Madrid, da realismo magico, nel segno di un allenatore Don Chisciotte, Enzo Bearzot, e di un centravanti, Paolo Rossi, rinato in terra di Spagna dopo una ingiusta squalifica per lo scandalo delle scommesse clandestine, e diventato, come fuoco e incanto, il simbolo di quel nostro Mundial, con i suoi gol (sei, bomber della manifestazione), il suo sorriso leggero, quasi crepuscolare, aspettavamo di rivedere nel nostro cielo l’azzurro di un campione in grado di restituirci la magnificenza e la magia del breriano “gioco più bello”. Il mondiale dell’86 fu all’insegna del Borges della pelota, di Diego Armando Maradona, il fuoriclasse che portò il Napoli al centro dell’universo calcistico, tra reti di mano e reti impossibili, furori politici e quel tango che solo lui sapeva ballare sul prato verde: un tango che, ogni volta, richiamava la meraviglia e lo stupore e la nostalgia. Per l’Italia non ci fu altro che malinconia, eliminata agli ottavi di finale dalla Francia di Michel Platini, quell’Italia, sempre del Vecio, che non riuscì a trovare l’alchimia tra i reduci spagnoli e i nuovi talenti.

L'eroe di Italia '90

Ma ecco, nel 1990, a casa nostra, per la nostra Coppa, con quell’inno di Gianna Nannini ed Edoardo Bennato a darci l’aspettative di “notti magiche”, arrivare una stella all’improvviso, accompagnata dallo splendore di Roberto Baggio, il genio con il codino, l’artista che disegnava traiettorie impossibili e si esibiva in dribbling da capogiro, la stella di un centravanti siciliano, cresciuto in quelle zolle di polvere e speranza, di fango e riscatto, dove i ragazzini inseguivano futuro di pace e orizzonti limpidi e avevano fame di tutto: quella di Totò Schillaci, passato nell’estate del 1989 dal Messina alla Juventus, e ora convocato da Azeglio Vicini, come riserva di Andrea Carnevale. Entrato al suo posto, al nostro debutto, nella ripresa, segna, dopo appena una manciata di minuti, un gol di testa all’Austria, che sblocca lo 0-0 e permette agli azzurri di vincere quel delicato match. Totò diventa titolare fisso dalla partita con la Cecoslovacchia (la terza) fino alla finale per il terzo posto, conquistato dalla nostra nazionale contro l’Inghilterra (prima la Germania Ovest, seconda l’Argentina maradoniana, pallido match risolto da un rigore dubbio messo a segno dall’interista Brehme). Bene: Schillaci segnò sempre, diventando il capocannoniere della Coppa con sei gol, proprio come San Pablito, e poi Pallone d’Oro (ancora come Rossi).

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Schillaci, un altro Pablito

Seguivo gli azzurri per questo mio amato giornale e ricordo bene quei giorni, quelle notti e quel fenomeno capace di capovolgere qualsiasi canone tattico, di diventare “Sturm und Drang”, di trovare con un guizzo la rete da incorniciare. E poi, quel suo modo originale di esultare, specchio di una intera esistenza, di una vita sospesa tra il sogno e il divenire, orgoglio di un’isola che lo aveva adottato come figlio e come simbolo di una felicità inaspettata e totale: gli occhi spalancati come a non credere a quei continui miracoli, le braccia al cielo come una liberazione e l’abbraccio totale, assoluto e assurdo di un Paese che, ora sì, poteva risalutare, tra mille vibrazioni e canti, un altro Pablito. E lui non ha mai perso, nemmeno nei momenti della gloria, in quel suo apogeo, l’umiltà, quel suo modo di porsi quasi scusandosi: perché a lui sembrava tutto troppo e tutto impossibile per poter essere vero.

La storia di Totò

Nel 1992 Madama lo cede all’Inter, poi nel 1996, consigliato dal suo manager, sempre e per sempre, Antonio Caliendo, eccolo prendere un volo intercontinentale per sbarcare in Giappone (Jubilo Iwata), pronto ad aprire un inedito Edoardo ai suoi colleghi calciatori. Una storia, la sua, di prodezze e di successi, ma anche buio e miele, orgoglio e pregiudizio: gli insulti razzisti in tante curve nere, un divorzio (da Rita) e poi un nuovo amore (con Barbara), tre figli che amava (Mattia, Nicole e Jessica), una carriera politica finita sul nascere; no, non poteva essere quello il suo terreno di conquista, la tv, soprattutto con L’isola dei Famosi e, con Barbara a fianco, Pechino Express. Ma noi vogliamo ricordarlo mentre corre ancora dietro a un pallone, mentre racconta ai giovani dei quartieri più duri di Palermo la possibilità di rinascere attraverso il football, il segreto per non smarrirsi nei labirinti del successo. Da ieri sono tante, sui social, le testimonianze di affetto nei suoi confronti, prima fra tutte quella di Roberto Baggio. Era impossibile, per davvero, non volergli bene. In quattro anni abbiamo salutato centravanti indimenticabili: Pietro Anastasi, Paolo Rossi, Luca Vialli e ora Totò Schillaci: ma il loro esempio resta carne viva, memoria e vanto, storia non soltanto del football, ma della nostra vita quotidiana, della nostra società, del nostro splendore. Perché, con loro, in tutto c’è stata bellezza. Infinita, eterna bellezza.

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Lo abbiamo atteso come un’epifania, come una terra promessa, come una nuova rivelazione. Da quell’11 luglio 1982, in quella notte di Madrid, da realismo magico, nel segno di un allenatore Don Chisciotte, Enzo Bearzot, e di un centravanti, Paolo Rossi, rinato in terra di Spagna dopo una ingiusta squalifica per lo scandalo delle scommesse clandestine, e diventato, come fuoco e incanto, il simbolo di quel nostro Mundial, con i suoi gol (sei, bomber della manifestazione), il suo sorriso leggero, quasi crepuscolare, aspettavamo di rivedere nel nostro cielo l’azzurro di un campione in grado di restituirci la magnificenza e la magia del breriano “gioco più bello”. Il mondiale dell’86 fu all’insegna del Borges della pelota, di Diego Armando Maradona, il fuoriclasse che portò il Napoli al centro dell’universo calcistico, tra reti di mano e reti impossibili, furori politici e quel tango che solo lui sapeva ballare sul prato verde: un tango che, ogni volta, richiamava la meraviglia e lo stupore e la nostalgia. Per l’Italia non ci fu altro che malinconia, eliminata agli ottavi di finale dalla Francia di Michel Platini, quell’Italia, sempre del Vecio, che non riuscì a trovare l’alchimia tra i reduci spagnoli e i nuovi talenti.

L'eroe di Italia '90

Ma ecco, nel 1990, a casa nostra, per la nostra Coppa, con quell’inno di Gianna Nannini ed Edoardo Bennato a darci l’aspettative di “notti magiche”, arrivare una stella all’improvviso, accompagnata dallo splendore di Roberto Baggio, il genio con il codino, l’artista che disegnava traiettorie impossibili e si esibiva in dribbling da capogiro, la stella di un centravanti siciliano, cresciuto in quelle zolle di polvere e speranza, di fango e riscatto, dove i ragazzini inseguivano futuro di pace e orizzonti limpidi e avevano fame di tutto: quella di Totò Schillaci, passato nell’estate del 1989 dal Messina alla Juventus, e ora convocato da Azeglio Vicini, come riserva di Andrea Carnevale. Entrato al suo posto, al nostro debutto, nella ripresa, segna, dopo appena una manciata di minuti, un gol di testa all’Austria, che sblocca lo 0-0 e permette agli azzurri di vincere quel delicato match. Totò diventa titolare fisso dalla partita con la Cecoslovacchia (la terza) fino alla finale per il terzo posto, conquistato dalla nostra nazionale contro l’Inghilterra (prima la Germania Ovest, seconda l’Argentina maradoniana, pallido match risolto da un rigore dubbio messo a segno dall’interista Brehme). Bene: Schillaci segnò sempre, diventando il capocannoniere della Coppa con sei gol, proprio come San Pablito, e poi Pallone d’Oro (ancora come Rossi).

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