La punizione al contrario un calcio al terrore in Zaire

Cinquant’anni fa l’episodio più clamoroso nella storia dei Mondiali
La punizione al contrario un calcio al terrore in Zaire

Mancano dieci minuti alla fine e il Brasile è in vantaggio per tre a zero. L’arbitro, il rumeno Nicolau Rainea, ha fischiato l’ennesima punizione a favore dei carioca. Sulla palla c’è Roberto Rivelino, il numero dieci di origine italiana che sui calci piazzati spara delle bombarde incredibili. I trentamila spettatori sparsi nel grande stadio di Francoforte chiedono il gol. Hanno pagato e vogliono lo spettacolo. Difensori e centrocampisti dello Zaire sono schierati quasi tutti in barriera. Il terzino Joseph Mwepu Ilunga, venticinque anni, è uno di loro. Rivelino indietreggia per la rincorsa. Ilunga ha come un raptus. Esce dalla barriera e calcia la palla lontano dalla porta e soprattutto dal fuoriclasse brasiliano, che se la vede passare a pochi centimetri dal volto e rimane allibito. L’arbitro Rainea, sorpreso come tutti, sventola il cartellino giallo in faccia al difensore, che non sa giustificarsi. La tensione e anche la concentrazione di Rivelino, però, sono smorzate. Sulla ripetizione la palla finisce contro la diga africana. I giornali, la mattina dopo, non hanno pietà. I commenti più benevoli descrivono Ilunga come uno sprovveduto. In molti sostengono che gli africani sono ancora così distanti dal gioco del calcio che neppure conoscono le regole, neanche i giocatori dello Zaire, che sono i campioni d’Africa. L’episodio è interpretato come bizzarro, grottesco, inconcepibile.

Vidinic in panchina

Lo Zaire, nel 1974, è arrivato in Germania, anzi in Germania Ovest, con l’orgoglio di essere la seconda squadra africana a disputare le finali di un Mondiale. La prima è stata il Marocco. La rivoluzione culturale e politica degli anni Cinquanta e Sessanta ha portato molti Paesi africani a proclamare l’indipendenza e di conseguenza a volere la giusta considerazione anche sul piano sportivo. La Fifa ha sancito il diritto della Caf, la confederazione africana, a qualificare una squadra alla fase conclusiva della Coppa del Mondo fin dal 1970 in Messico. Lo Zaire, dopo aver fatto fuori Togo, Camerun e Ghana, ha prevalso nel triangolare con Zambia e Marocco e ha staccato il biglietto per i Mondiali tedeschi. Sulla panchina siede lo jugoslavo Blagoje Vidinic, macedone di Skopje, scelto dalla federazione zairese perché quattro anni prima ha dato lustro al Marocco. Lo Zaire, ex Congo Belga, è dominato da Mobutu Sese Seko, eccentrico e all’occorrenza sanguinario dittatore, che si è guadagnato la protezione degli Stati Uniti per avere rovesciato il governo di Patrice Lumumba, democraticamente eletto, che intratteneva rapporti con l’Unione Sovietica. La qualificazione è vista da Mobutu come l’occasione per rafforzare la credibilità internazionale. Come accade in tutti o quasi i regimi totalitari, lo sport è un veicolo di propaganda. Solo qualche mese dopo Kinshasa ospiterà il The Rumble in the Jungle, la rissa nella giungla, lo storico incontro tra Muhammad Ali e George Foreman, il più grande evento di boxe del Ventesimo secolo, dove Alì si riprenderà la corona dei massimi Ai Mondiali i giocatori dello Zaire arrivano con un nuovo soprannome. I Leoni sono diventati Leopardi. Qualcuno dice che il motivo va ricercato nella sconfinata passione che Mobutu ha per i felini, altri che il dittatore ha voluto in questo modo dare senso al suo immancabile copricapo, fatto di pelle di leopardo. I giocatori dell’ex Congo, in ogni caso, adesso portano sulla maglia la scritta The Leopards, i Leopardi, e non è uno sponsor! La qualificazione è valsa ai calciatori quarantacinquemila dollari, un appartamento e un’automobile ciascuno, oltre allo status di eroe nazionale. I giocatori vengono ricevuti a Kinshasa prima della partenza ed osannati. Poi salgono su un aereo e volano in Europa. Ma una volta in Germania, la realtà è ben diversa da come veniva immaginata. Al debutto i Leopardi perdono due a zero contro la Scozia di Joe Jordan in una partita in cui gli scozzesi, superiori sul piano tecnico, li irridono. Poi arriva la gara con la Jugoslavia e questa è lo spartiacque.

Leader senza scrupoli

Mobutu è un uomo che di scrupoli ne ha pochi. Indignato dall’epilogo del match contro la Scozia, fa sapere ai calciatori che quanto promesso prima della partenza, se non vincono, non sarà corrisposto. Se non tengono alto il prestigio dello Zaire, tutto salta. La dura presa di posizione del dittatore sconcerta, blocca, toglie le energie ai giocatori in maglia verde, che sono bravi, certo, ma hanno da pedalare ancora molto per avvicinarsi ai livelli delle Nazionali europee e del Sudamerica. Le parole di Mobutu provocano nei giocatori l’effetto contrario. Secondo alcuni innescano il desiderio di ammutinamento, per altri invece l’allenatore Vidinic si accorda con i dirigenti della federazione del suo Paese di nascita per aiutare i connazionali, per altri ancora lo Zaire non onora l’impegno in segno di protesta contro le frasi razziste che alcuni giocatori della Scozia avrebbero pronunciato quattro giorni prima, altri infine dicono che gli avversari sono di un altro pianeta, punto e basta. Può essere che la verità metta insieme un po’ tutte queste supposizioni. Fatto sta che a Gelsenkirchen, industriosa città della Vestfalia, i Plavi del serbo Miljan Miljanic infliggono ai Leopardi una delle più cocenti sconfitte mai registrate nella storia dei Mondiali: nove a zero. Al ventesimo, dopo il terzo gol, arriva l’ordine di sostituire il portiere Mwamba Kazadi, lo Yashin d’Africa, con il brevilineo Dimbi Tubilandu, che però subisce altre sei reti. La pesante sconfitta fa esplodere di rabbia il dittatore. L’onore è infranto. Mobutu minaccia personalmente i giocatori affermando che nell’ultima partita, contro il Brasile, possono anche perdere, ma non con più di tre gol di scarto, altrimenti non vedranno più le loro famiglie. L’avvertimento è chiaro. Il caos diventa totale. La paura s’impadronisce della squadra.

La minaccia di vendetta

Diceva Honoré de Balzac, il famoso drammaturgo e scrittore francese, che per giudicare un uomo bisogna conoscere i segreti del suo cuore. E così, in effetti, è. Quel 22 giugno 1974, mezzo secolo fa, il gesto all’apparenza inspiegabile di Ilunga è figlio non della stoltezza, né della mancata conoscenza delle regole, ma dell’umano tentativo di scacciare il pericolo, rimuoverlo, allontanarlo. Con quel gesto passato alla storia come la “punizione al contrario”, il giocatore dello Zaire, in modo istintivo, esorcizza la vendetta di Mobutu. I calciatori brasiliani capiscono che i loro avversari stanno vivendo un dramma e calano i giri. La ruota rallenta, mentre milioni di spettatori in tutto il mondo, davanti alle televisioni, non sanno cosa sta accadendo sulle rive del Meno. Ilunga racconte rà la storia solo nel 2002, cinque anni dopo la caduta del dittatore, che nel frattempo è passato a miglior vita. Da lì prende coraggio e trasforma la sua vicenda in uno spettacolo. Un signore all’improvviso ruba la palla a dei bambini e lascia partire un tiro che va a infrangere la vetrina di un negozio. Tutto finisce con delle risate. Sembra una cosa leggera. Ma quello sketch, che l’ex terzino reciterà fino a poco prima di andarsene nel 2015, è in realtà l’ironica ed amara rappresentazione del gesto disperato di un uomo che si ribella al terrore che immobilizza e trova il modo di comunicare agli avversari, che sono uomini come lui, che quello che per loro è un vezzo, il quarto gol, per lui ed i suoi compagni può diventare, senza parafrasi, una questione di vita o di morte.

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