Il rapporto fra Berlusconi e la Juventus, che poi significa Agnelli, era iniziato malissimo. Perché gli elicotteri e la Cavalcata delle Valchirie per presentare il suo Milan all’Arena di Milano erano sembrati una grande cafonata all’Avvocato. E lo aveva detto: «Certe cose meglio lasciarle al cinema e lo spettacolo lo si deve fare sul campo, dove il Milan di Berlusconi deve ancora dimostrare cosa vale», aveva detto Gianni Agnelli nel 1986. Poi sul campo qualcosina aveva dimostrato e, pur senza cambiare idea sullo stile, l’Avvocato aveva corretto il tiro, riassumendo così l’impatto del Cavaliere sul mondo del pallone: «Si è abbattuto sul calcio trasformandolo da sport di città a spettacolo televisivo. Il suo Milan lo paragonerei agli Harlem Globetrotters, e lui al capo del Madison Square Garden. Donadoni è stato il primo pezzo che ci ha strappato. L’Atalanta era nostra assidua fornitrice da un sacco di tempo, e quello fu un segnale chiaro, un segno forte: di svolta drastica, di cambiamento radicale. Nulla, e nessuno, sarebbe rimasto come prima. Ciò premesso, ho applaudito e invidiato il suo Milan».
Il rapporto tra Berlusconi ed Agnelli
Strana dinamica quella fra Berlusconi e Agnelli, semplificando molto, probabilmente troppo, la cosa si potrebbe parlare di differenza fra attitudine milanese e torinese, ma la questione è più complessa. Nella sua prima epica intervista al mensile “Capital”, datata 1981, un Berlusconi quarantaquattrenne alla domanda se Gianni Agnelli fosse l’esempio del vero imprenditore, specificava: «Giovanni Agnelli è un principe», concetto in cui c’era un po’ di tutto, compreso il fatto che Agnelli aveva ereditato la sua fortuna, lui se l’era costruita da solo. Tuttavia, come gli yuppies dei Vanzina, soffriva la classe dell’Avvocato e della sua corte. Non a caso uno spassoso Galliani ha recentemente raccontato un aneddoto archeologico nel quale lui e Silvio, prima di acquistare il Milan, incrociano Agnelli, Montezemolo, Gawronski e Malagò a Sankt Moritz: «Noi imbaccuccati come Totò e Peppino, Agnelli con la camicia di jeans aperta sul petto. Ci siamo detti: non saremo mai come loro. Qualche giorno dopo, però, ci proponevano di comprare il Milan». E, a quel punto, senza mai riuscire a slacciare i primi tre bottoni della camicia a meno cinque, Totò e Peppino si sono presi delle rivincite sulla Juventus dell’Avvocato.
La sifda tra Milan e Juventus
Nell’era Sacchi, quello fra Milan e Juventus, allenata da Trapattoni e poi da Marchesi, era un confronto ideologico in un fondamentale momento di transizione del calcio, in cui i bianconeri erano i conservatori, i rossoneri i rivoluzionari, che poi vinsero. Al punto che, ispirandosi (o forse è meglio dire scimmiottando) il Milan sacchiano, la Juventus prese Gigi Maifredi, poi diventato pietra di paragone di ogni fallimento juventino (esiste una scala Maifredi che, come quella Mercalli, misura i disastri per la gente bianconera). Ma poi ci furono laceranti vendette sportive, come il 6-1 di San Siro che chiuse un’era del Milan e consacrò quella bianconera sotto la guida di Marcello Lippi, che se Hegel si fosse occupato di pallone avrebbe definito la sintesi dialettica fra Sacchi e Trapattoni. «Mi ricordo quando loro ce ne fecero 7 a Torino», commentò soddisfatto l’Avvocato pescando un episodio del 1950.
Juventus e Milan si spartiscono gli Anni 90, prima parte alla corazzata rossonera di Capello, seconda a quella bianconera di Lippi. È periodo di una strana rivalità, senza spigoli e molta morbidezza, perché sotto Berlusconi e gli Agnelli (quella è una Juve di Umberto), ci sono Galliani e Giraudo, forse i miglior manager che ha avuto il calcio italiano, che hanno capito l’importanza di fare sistema per rendere il pallone un business produttivo e non solo un capriccio per magnati. Juventus e Milan arrivano a disputarsi una Champions League nella storica finale di Manchester del 2003; Giraudo e Galliani non aspettano il risultato finale e decidono di dividersi equamente la posta con cinismo manageriale che viene sicuramente apprezzato da Berlusconi e Agnelli, romantici sì, ma anche molto imprenditori.
Al di là delle alleanze politico-economiche, Berlusconi resta e resterà un avversario rispettato dal mondo della Juventus che lo ha visto transitare per un trentennio, ne ha invidiato i successi internazionali, ha patito la sua rivoluzione del calciomercato arrivata all’improvviso per squarciare, in pochi mesi, abitudini consolidate da quasi un ventennio. Forse gli Agnelli non l’hanno mai veramente considerato alla loro altezza o forse era semplicemente diverso da loro. Non troppo diverse le idee sul calcio, però. «Purtroppo prevale l’imponderabile. Dobbiamo trasformarla in un campionato continentale, una formula più spettacolare che consenta alle società certezze gestionali e certezze ecominche. Si potrebbe giocare tutti gli anni a Madrid, Barcellona, Lisbona, Manchester. Inutile fare demagogia: le formazioni di un certo livello devono avere il diritto di competere fra di loro. E poi magari fare dei playoff e la Serie A che passa da 16 a 18 squadre va in direzione opposta agli interessi del calcio. È questo lo spettacolo? Dobbiamo cambiare». Era il 1988, non il 2021, era Berlusconi, non Andrea Agnelli.