Trent’anni fa, oggi, moriva Gianni Brera. È stato il più grande giornalista sportivo, ma è davvero riduttivo ricondurlo a una definizione. Non ha solo scritto e diretto, ha inventato grande parte del linguaggio sportivo odierno, ha raccontato il calcio, il ciclismo e l’atletica leggera (il primo amore), fondendoli con la letteratura, la cultura, l’antropologia. Per almeno dieci anni, nelle gestioni azzurre Foni e Ferrari, e fino al rifiuto oppostogli da Mondino Fabbri, ha influenzato pesantemente le scelte tecniche della Nazionale. Morì in una serata fredda di dicembre, in compagnia degli amici di una lunga vita e fra i fumi umidi della terra padana. Lui avrebbe scritto: l’avita terra padana. «Non è mia la colpa di essere nato là dove l’Olona confluisce trepida nel padre Po» specificava con immaginifica prosa sull’Arcimatto, ultima pagina del Guerin Sportivo editato dal Conte Rognoni. È stato un giornale magnifico, unico, un porto di mare culturale, che più di tutti ha certificato il genio e la scrittura di gioanbrerafucarlo. Quel venerdì del ’92 la notizia della sua scomparsa si mosse lentamente per l’Italia, distratta dalla sosta del campionato per la partita della Nazionale l’indomani a Malta. Non c’erano i social, non esistevano quasi i telefoni cellulari, nelle redazioni erano giunti da pochi anni i primi computer, contro i quali Brera opponeva la “Lettera 22” Olivetti. Solo per rimarcare quale sia la differenza fra quei giorni e il giornalismo di oggi su iPhone.
Trent'anni dopo
Passati 30 anni, viene infatti da chiedersi cosa resti della lezione di Brera. È la domanda che rimane. Viene da interrogarsi ancora di più dopo la scomparsa, due giorni fa, di Mario Sconcerti, fuoriclasse che portò proprio Brera a scrivere sulle neonate pagine dello sport di Repubblica. «Gli portavo la macchina da scrivere durante i Mondiali in Spagna ed ero il suo capo» ricordava. Anche questa una lezione per molti. Sconcerti è stato con Brera uno dei riferimenti maggiori della nostra professione perché ha interpretato una stagione storica, ne ha trovato le chiavi di lettura. Scomodando Hegel, hanno colto entrambi lo spirito del proprio tempo. Il primo ha fondato una Scuola che non esisteva, il secondo l’ha interpretata e riproposta in chiave moderna, aggiungendo la formazione di decine di giornalisti (specie negli anni al Corriere dello Sport-Stadio), senza mai imitare il primo come invece ha fatto un’intera generazione. Del giornalismo di Brera non c’è più nulla, nella stampa odierna. Spesso nemmeno la conoscenza della sintassi. Lasciamo poi perdere lo sterminato, irrinunciabile patrimonio di citazioni, riferimenti, sapere diffuso. Brera amava la letteratura araba, di cui si cibava a notte fonda, dopo avere terminato con i formaggi e le ultime bottiglie di Barbaresco, il vino preferito. La ricchezza degli stipendi, la possibilità di viaggiare, l’assenza delle immagini tv, e dunque il monopolio nella visione, hanno aiutato tanto quella leva giornalistica. Difficile diventare Brera con 500 euro al mese e nella stanza di casa dei genitori poiché nelle redazioni non si entra più, soprattutto essere così credibili davanti a un pubblico che vede quanto e più di te. Ma c’è però un insegnamento di Brera che deve rimanere anche nei giovani, nella velocità dei social, nella polarizzazione dei giudizi e nella faziosità di chi confonde tifo e informazione. L’autorevolezza di Brera nasceva in primis da ciò che aveva letto, persino nei giorni della guerra, sotto le bombe. Senza cultura non si ottiene niente. Serve lo studio per rendersi forti, autorevoli e liberi. Non è Brera, questo, ma don Milani.