di Giorgio Pasini - Rubrica Storie di Sport di Tuttosport di mercoledì 1 Aprile 2020
«Tutto è iniziato con un’influenza». Inizia così la storia di Yulia Baykova, russa di passaporto, lettone di nascita, italiana per amore. Sia di Vincenzo, sia della corsa estrema. Ultra Trail, le gare infinite sui sentieri di montagna. La sua salvezza. Una storia che sembra lo specchio di quanto sta succedendo in queste drammatiche giornate da Coronavirus e che ci racconta da Novara, dove vive da vent’anni. Come simbolo di speranza.
Yulia, perché la corsa e soprattutto quella così estrema?
«Perché mi fa sentire libera, felice. E’ un amore che ho sempre avuto dentro di me, ma quando ero ragazza e vivevo a Gorki, a 400 km da Mosca (ora si chiama Novgorod, ndr), non potevo. Tre milioni di abitanti e non ne vedevi uno correre per strada. Potevi fare solo atletica in pista, ma avevo problemi burocratici perché ero nata in Lettonia, dove mio padre, pilota militare, era stato mandato. Ho provato una sera d’inverno. In strada era come fare pattinaggio e tutti mi guardavano male. Ma quando sono venuta qui in Italia ho visto i prati verdi per per me, abituata al grigio della città e al bianco delle neve, era tutto nuovo. Un paradiso. E mi è venuta una sfrenata voglia di correre, per me è come volare».
Ha fatto tutto da autodidatta?
«Quasi. Mi ha aiutato mio marito. Lui lavora in banca e aveva la passione per l’arte. Dipingeva, incideva. L’ho conosciuto così, a una mostra in Russia dove era venuto a incontrare mio padre Boris, che una volta andato in pensione dall’aeronautica è diventato designer. Lì è scoppiata la scintilla. Io non sapevo nulla di corsa, che invece è diventata presto la sua passione, sostituendo la pittura. Era diventata un lavoro, s’era stufato. Sì, ci piace la libertà… Così, quando mi ha vista correre ha detto: hai stoffa, prova a fare qualche gara. È iniziato tutto così, con Vincenzo allenatore».
E all’Ultra Trail come è arrivata?
«Ho cominciato con le campestri e le corse su strada. Mi hanno notata all’Atletica Comense e tesserata. Ho corso per loro fino al 2009, poi ho capito che volevo altro. Un Ultra Trial, anche se il livello è diventato altissimo e si tratta di agonismo vero, è qualcosa più di una gara. È un viaggio, una sfida con te stesso. Nella mia storia ringrazio il destino, ma anche lo sport, il mio sport. Essere abituata ad affrontare e superare le crisi, che in una gara di oltre 100 km arrivano sempre, mi ha aiutato a restare viva. Nell’Ultra Trail la crisi non dura qualche minuto, ma ore talvolta. Serve una mente preparata a soffrire e a reagire. Quando ero semilucida nella terapia intensiva delle Molinette per non mollare mi dicevo di essere in gara».
Ci racconta cosa è successo?
«Tutto è iniziato con un’influenza, a fine gennaio di cinque anni fa. Ero a Castiglion Fiorentino, in Toscana, per correre la Ronda Ghibellina. Sono 45 chilometri. La sera prima della gara avevo la febbre e mal di testa, pensavo fosse un banale malanno e ho corso. Tornata a casa sono peggiorata, non riuscivo a uscire ad allenarmi. La guardia medica mi visita e non mi dà antibiotici anche se la febbre non scende, perché dice che non ho placche in gola. Il mal di testa però diventa martellante e mi si gonfiano le palpebre. Vado al Pronto Soccorso, dove dopo sei ore mi rimandano a casa con un referto di cefalea. Peggioro ancora, se provo ad alzarmi svengo, cosi chiamo il 118. Torno al Pronto Soccorso, dove mi hanno lasciata per ore su una barella fino a quando mi sono sentita come se mi allontanassi e ho urlato: aiuto, aiuto. Poi il buio. Mi sono risvegliata con tutti i dottori intorno preoccupati e la camicia tagliata davanti. Il cuore era collassato, aveva l’undici per cento della funzionalità. Avevo una miocardite fulminante. In pratica un virus fa avvolgere il cuore di liquido».
Come è sopravvissuta?
«A Novara non c’erano macchinari adatti, così dopo una notte attaccata a una pompetta mi hanno portata in auto alle Molinette di Torino, dove mi hanno intubata e attaccata all’ECMO, la macchina per la circolazione extracorporea. Solo che sono iniziate una serie di altre disgrazie».
Quali?
«Il tubicino dell’ECMO ha tagliato l’arteria iliaca, s’è collassato un polmone. Per fortuna c’era un chirurgo straordinario che nonostante fosse fuori orario s’è fermato e mi ha operata d’urgenza per 16 ore. Da lì sono rimasta 14 giorni intubata attaccata alle macchine, 18 interapia intensiva. Un inferno che ho vissuto a sprazzi, quando abbassavano la sedazione ed ero semi lucida».
Fa venire in mente questi giorni di emergenza da Coronavirus.
«Già, mi è tutto molto familiare. Sto rivivendo la mia storia. Quando capisci qualcosa hai le visioni, vivi in un’altra realtà. Non percepisci il tempo che passa, anche perché in terapia intensiva non c’è giorno e notte, è sempre tutto illuminato. E non ci sono finestre, non hai riferimenti. In quei momenti ti aggrappi alla speranza. Per me è stato come correre un Ultra Trail della vita».
Come ha fatto a resistere?
«Dentro ti scatta qualcosa. Ricordo la sensazione fortissima di sete, ma non puoi bere per il pericolo che i polmoni si riempino di acqua. Al massimo ogni tanto ti bagnano le labbra con una garza imbevuta. Ecco, io sognavo di bere e bere e bere dai ruscelli di montagna mentre correvo. Poi piano piano sono migliorata, ho iniziato a respirare da sola e dopo altri dieci giorni in cardiologia mi hanno trasferita in un centro di riabilitazione a Veruno, vicino a casa. Lì ho scoperto di essere una sorta di paziente zero».
Ovvero?
«In casi come il mio quasi nessuno era sopravvissuto. I medici mi hanno detto che ero la prima che vedevano, ma che non avevo speranze di tornare come prima. Invece… Certo, c’è voluta un’altra operazione alla gamba dove ho tre stent e tanti sacrifici. All’inizio facevo qualche minuto sul tapis roulant a 2 km l’ora, io che corro in montagna a 12-15… Era come essere ferma, ma alla fine ne sono uscita».
Quando è tornata a gareggiare?
«Cinque mesi dopo, a fine giugno. Mi sono iscritta alla 120 km di Lavaredo. Ne ho fatti solo 18, i più duri della mia vita, ma per me già prendere il pettorale era come una vittoria».
Poi la gara più estrema che ha fatto?
«L’Ultra Trail Du Mont Blanc, l’Olimpiade degli ultrarunner. Sono 171 km intorno al Monte Bianco con 10 mila metri di dislivello. Parti da Chamonix, arrivi in Italia a Courmayeur, vai in Svizzera e torni in Francia. Sono otto colli, tutto sterrato. Ogni anno ci sono almeno 7.500 richieste d’iscrizione per 2.500 posti a numero chiuso. Sorteggiano. Io come atleta di livello internazionale lo evito. Ci sono andata la prima volta nel 2017, nel 2018 mi sono infortunata al 30° km e ritirata all’80°, l’anno scorso sono arrivata 16ª. Ci ho messo trenta ore».
E la vittoria più bella?
«Il Ponte di Pietra nel 2014, nell’Alessandrino. Era la mia terza gara di Ultra Trail, di 75 km: ho fatto il record del percorso e mi sono divertita. Tutto è iniziato da lì».
Divertita?
«Sì, perché nelle mie gare attraversi paesaggi che ti riempiono il cuore. Hai un senso di libertà bellissimo».
Come ci si allena per distanze così lunghe e dislivelli così impegnativi?
«Bisogna lavorare insieme su fisico e testa. Non basta la resistenza, serve potenza ma anche agilità, una muscolatura elastica. Specie per le discese. Non pensate a chilometri e chilometri di allenamento, anche se quando faccio i lunghi arrivo a 50-60, la vera chiave è variare il più possibili terreni e lavori. Io in genere vado sulle colline intorno a Novara. A Sizzano c’è un percorso di 38 km dove mi sono innamorata della corsa attraverso il profumo dei prati».
E ora come fa?
«Come tutti: a casa. Lo prendo come un periodo di riposo per staccare, anche mentalmente. La verità però è che non riesco a stare ferma, così giro sui rulli con la bici, faccio cardio con la corda e altro, anche se correre all’aria aperta è un’altra cosa, insostituibile, e non vedo l’ora di poter uscire di nuovo. Per il resto mi occupo della gara che organizzo sul Lago d’Orta. E’ a fine ottobre, dovremmo salvarla, anche se l’incognita sono i viaggi. Vengono 2.200 persone da 45 nazioni, un evento di tre giorni con percorsi che vanno dai 34 ai 140 km».
E chi sta lottando contro il Coronavirus cosa dice?
«Di non perdere mai la speranza, di essere forti. Bisogna crearsi in testa dei sogni, dei traguardi. Il mio era tornare in montagna, sui sentieri profumati. La mia vita. E resistere, aggrapparsi con tutto quello che si ha dentro alla speranza. Specie con la testa. Tutto ha una fine, anche le cose brutte, quelle peggiori. L’importante è non lasciarsi andare, mai. Ho capito sulla mia pelle che non sai mai quanto sei forte finché non affronti certe situazioni. A me avevano dato poche speranze di poter tornare a camminare, non immaginavo neppure io che sarei riuscita di nuovo a correre. Invece…».
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