Penso a “scrittura e natura”, il pensiero corre a Elio Vittorini, a Cesare Pavese, al giovane Italo Calvino, le cui foto sono in cornice ancora oggi sulla scrivania del salotto della casa romana. Roma e Milano erano città che nella infanzia e nella prima adolescenza, mi apparivano lontanissime, salvo quando si andava in “wagon lits” in modo da non “collezionare” assenze alla scuola. Viaggiavo con il nonno e andavamo dallo zio Corrado, intellettuale e giornalista, Premio Bagutta e Viareggio nel 1972, che aveva casa all’Eur a Roma e in centro nel capoluogo lombardo. Sulle pagine del quotidiano milanese da lui fondato nel dopoguerra con Elio Vittorini, “Milano sera”, si espressero i primi allegati popolari ad un quotidiano. Nacque la Colip, poi divenuta Canguro e piu tardi acquisita da Giangiacomo Feltrinelli. In Italia attraverso preziose traduzioni, si scoperse così il “naturalismo americano”, una fucina di talenti letterari purissimi. Non me ne vogliano i nostri autori di racconti marinareschi, ma il confronto con Hemingway, Twain, Fitzgerald, Melville, Steinbeck, se pure tradotti, evidenzia limiti di quanto espresso dalla nostra letteratura di genere. Quei grandi scrittori americani si dedicarono al racconto di mare e più genericamente al paesaggio-natura, con esiti fecondi, sintassi e coerenza di stile.
Si può comprendere dalla premessa che intendo parlare di natura, letteratura e sport e in particolare di mare. Dirò di una disciplina antichissima e poco nota, fatta eccezione per i frequentatori di spiagge di sublime suggestione: il surf porta con sé raro “afflato” spirituale. Il mare è luce e riflesso. L’ideico delle acque, tagliate da una imbarcazione o più semplicemente da una tavola, in ogni epoca ha destato emozione nell’umano. Che sia il mare nostrum o gli oceani, acque, quiete o impetuose, agli sguardi si aprano orizzonti della mente e invenzione letteraria nel segno dell’allegoria. Guerre e approdi, mancati e salvifici, consegnano la storia. La storia a sua volta si consegnerà al racconto. Qui alludiamo allo sport che esalta bufere con onde altississe, uno sport non del tutto riconosciuto nonostante esprima suprema bellezza.
Surf è anglismo dal letterale significato di “cresta dell’onda”: il vocabolo indica lo sport acquatico, che consiste nel cavalcare le onde del mare con una tavola. La tecnica è quella di planare, lungo pareti dell’onda, restando in piedi sulla tavola.Tecnica e ritmica del gesto appaiono contraddire la forza di gravità. Si potrebbe ritenere che nella esaltazione del gesto d’atleta sia rappresentato un miraggio, ancor prima di una prestazione. Gioco di equilibrismi e volteggi, acrobazie, velocità per scivolare lungo ripide discese e trasparenze verdi azzurre. Il surf, inventato nelle isole del Pacifico nella notte dei tempi, oggi è nei suoi protagonisti altro, gli atleti somigliano ad “argonauti” in tute griffate e coloratissime con i calzari aderenti la tavola. Dopo Tokyo, è tornato nel programma olimpico in un luogo che ha dell’incredibile: Teahupo’o, a Tahiti, (Polinesia francese), collettività d’Oltremare” della Repubblica nell’Oceano Pacifico Meridionale. Un ritorno alle origini: il surf ha radici infatti nelle antiche culture polinesiane, come un rito sacro, detto “he’e nalu” (scivolare sulle onde) . Le prime testimonianze vengono dal Perù tra il 3000 e il 1000 a.C., con pescatori mochici che affrontavano onde giganti su tavole di legno chiamate “caballitos”. Il surf non prevedeva agone o scontro o premio, era praticato come ritualità sacra e forma d’arte.Vi era cioè una mistica di comunione e unione tra uomo e natura.
Disciplina fisico e spirituale, tale da vantare santuario nell’arcipelago hawaiano, di cui v’è traccia anche nei diari di bordo del capitano Cook. La tradizione si interrompe quando giungono i missionari europei nel XVIII secolo e ne vietano la pratica, poiché “deistica”: ne rovesciano cioè il senso e lo indicano blasfemia e mancanza di riguardo degli equilibri della natura. Torno per questo pensiero a un coraggioso pioniere, fuoriclasse del nuoto, il campione olimpionico Duke Kahalamaku, considerato il “padre” del moderno sport, che restituiti dignità sociale alla pratica. Il surf raccoglie consenso ampio anche in Australia: le restrizioni coloniali sull’accesso alle spiagge sono abolite nel 1903, e questo coincide con la rinascita della disciplina come sport persino quale “attività di soccorso”. Negli Anni ’50 e ’60 in America nell’immaginario collettivo il surf non è inferiore alle passioni per le moto di grossa cilindrata, quelle dei “giovani leoni” come Marlin Brando. Il surf è musica, arte, uno stile di vita, che definisce l’immagine del praticante icona di libertà. Si formerà persino una band: i Beach Boys scrivono la colonna sonora del surfismo (Surfin’ Usa), diffusa con successo nel mondo. Dagli Anni ’70 l’evoluzione della disciplina porterà l’avvento di nuovi stili, lo sport sarà più tecnico e spettacolare, le strategie più audaci e le tavole più evolute. Gli ’80 e i ’90 sono gli anni dell’ascesa dei tornei internazionali. I campionati mondiali e le sfide tra i migliori, come Kelly Slater, atleti acrobati che scrivono pagine indelebili nella storia del surf, con record, titoli e prestazioni straordinarie.Con innovazioni hi-tech e crescita del surf online, ecco la creazione di parchi acquatici con onde artificiali a cambiare il gioco, consentendo ai surfisti di “cavalcare onde perfette”, onde che paiano modellate, anche in luoghi distanti dalle coste oceaniche.
Il surfista moderno si consegna a un ruolo sociale, alla causa ambientalista, è consapevole che ogni azione dell’uomo può avere impatto anche negativo sulla natura. Dagli antichi rituali polinesiani alle prime manifestazioni del surf moderno alle Hawaii e in California, fino alle competizioni globali di oggi, il surf ha plasmato culture e connesso donne e uomini di tutto il mondo. La sua essenza rimane tuttavia inalterata: ricerca della perfezione dell’onda e “danza” tra l’uomo e l’oceano. Il surf come rito che rinnova, comunione dell’umano con la natura.