Un’impresa ad alta quota

Dopo aver da poco raggiunto la vetta del Monte Rosa, Stefano racconta della sua esperienza, del suo rapporto stretto con AISM e del suo amore per la montagna

Un misto tra soddisfazione, emozione e tenacia è tutto ciò che trapela dalle parole di Stefano, un ragazzo di 27 anni con un'immensa passione per l'alpinismo, laureato alla Bocconi di Milano e consigliere comunale a Treviso, che dal 13 al 15 luglio ha coronato un suo grande sogno: scalare il Monte Rosa e arrivare alla Capanna Margherita, il rifugio più alto d'Europa (4.554 m). Durante la nostra chiacchierata chi ha parlato della sua impresa e ci ha spiegato come tenacia e razionalità sono stati e continuano ad essere tratti fondamentali del suo carattere per combattere gli ostacoli della sclerosi multipla, una «faccenda» con cui Stefano convive da circa due anni, ma da cui ha deciso di non farsi limitare.  

Come ti è nata la voglia di scalare il Monte Rosa?

«Innanzitutto, ti faccio una premessa: ci tengo a dire che io sto bene. È vero che mi è stata diagnosticata una patologia molto grave e che ho avuto in questi due anni dei problemi ma mi sento di affermare che sto bene. La sclerosi multipla è una malattia un po' strana, degenerativa per cui ovviamente ci sono persone che stanno in condizioni molto peggiori rispetto alla mia! Detto ciò io è da qualche mese che mi stavo preparando, volevo fare la scalata del Monte Rosa perché a me è sempre piaciuta la montagna, ho fatto alpinismo ma comunque non sono un alpinista professionista; in realtà vado in montagna come alpinista amatoriale. La sezione CAI di Treviso organizzava quest'escursione di tre giornate e quindi ho deciso di iscrivermi e partecipare».

Prima della partenza eri un po' in tensione?

«Guarda io sono una persona abbastanza razionale quindi l'emotività la lascio da parte praticamente in tutto, che sia la malattia, l'arrampicata o l'alpinismo. Però naturalmente era la prima volta che lasciavo le Dolomiti, le mie montagne: solo una volta ero andato sul gruppo dell’Ortles-Cevedale e avevo fatto un 3.800 metri, ma mai oltre i 4000! Da questo punto di vista avevo quindi un po' di ansia da prestazione, sia perché non mi sentivo a casa, sia perché è la prima volta su una quota che comincia ad essere interessante. Ma io comunque ero convinto di star bene, che ce la potevo fare, nonostante avessi avuto una piccola ricaduta nel mese di giugno per cui ho dovuto fare un ciclo di cortisone che mi aveva abbastanza debilitato. Non ti nego che questo mi aveva fatto preoccupare, ma per fortuna non mi ha fermato nel mio intento, anche perché io sono un po' testardo quindi è difficile bloccarmi». 

E una volta arrivato alla Capanna Margherita? 

«La Capanna Margherita è il rifugio più alto d'Europa, è un posto affascinante, credo che si debba vedere almeno una volta nella vita. Lo conoscevo e ci volevo andare a tutti i costi. Ovviamente bisogna avere competenze e conoscenze alpinistiche per farla, però non è una via particolarmente difficile, ma rimane comunque interessante. Inutile dire che arrivare alla Capanna Margherita, a 4553 metri di quota, è stata davvero una bellissima emozione, poi nel mio caso era una meta carica di aspettative. Diciamo che gli ultimi metri prima della Capanna ero emotivamente molto coinvolto, anche se era solo la prima di altre vette che ho scalato lì in quella giornata».

Quindi sono stati tre giorni del tutto lineari? Non ci sono mai stati momenti di sconforto in cui hai creduto di non farcela?

«Assolutamente no! Anche se tutti i miei compagni di escursione per ripassare un po' di tecniche di avanzata su ghiaccio qualche tempo prima avevano fatto la Marmolada, il ghiacciaio che c'è dalle nostre parti di 3300 metri. Io purtroppo a quell'uscita di preparazione non ero riuscito a partecipare perché appunto ero straimbottito di cortisone e non avevo molto fiato. Quindi le settimane precedenti ero un po' in ansia perché ero convinto di non ricordarmi bene alcune tecniche e alcuni nodi, e avevo paura anche di non avere il fiato per farmi 1300 metri di dislivello a 4000 metri di quota. Mentre la settimana prima di scalare il Monte Rosa, sono andato a fare la Marmolada con due amici così ho ripassato tutto: vedevo che mi sentivo bene, che mi ricordavo le tecniche di progressione e che avevo fiato, quindi mi sono tranquillizzato e tutta la scalata del Monte Rosa poi è andata benissimo». 

Tu quindi sei sempre stato un appassionato di alpinismo, anche prima che ti diagnosticassero la sclerosi multipla?

«Sì! La mia passione per la montagna c'è sempre stata: io andavo già da prima a camminare, facevo corsi di alpinismo e un po' di arrampicata. E tra l'altro non ho mai smesso per lunghi periodi, neanche in concomitanza con la diagnosi della mia malattia, che è avvenuta dopo aver perso quasi completamente la vista da un occhio. Nei giorni in cui sono stato ricoverato in ospedale e le settimane successive di convalescenza sono stati gli unici momenti in cui ho interrotto, ma poi ho ripreso subito ad andare in montagna... e forse anche un po' più di prima».

Per quanto riguarda il tuo rapporto con AISM, come e quando sei entrato in contatto con l'associazione?

«AISM fin dall'inizio mi ha dato un supporto fuori dal normale, nel senso che anche solo il sito e i materiali informativi che fornisce ti permettono di avere un quadro della malattia che al mondo di oggi è difficile trovare, perché si tende sempre ad informarsi su internet, che in materia sanitaria è la cosa peggiore da fare. Quindi sapere dell'esistenza di un sito autorevole, chiaro e preciso relativamente a questa malattia è stato spesso un salvagente. In più, l'assistenza psicologica di ascolto e di comprensione sono stati molto importanti sia per me che per tutte le persone che mi volevano bene che si sono trovate a gestire questa “faccenda”. Poi, in un secondo momento, siccome mi sono sentito coinvolto in questa realtà e ho capito quanto fosse importante impegnarsi per questa causa, ho chiesto alla presidente della mia sezione come potessi rendermi utile per AISM e mi ha detto che mi sarei potuto presentare come membro del Consiglio direttivo al Congresso di AISM. Come dice il mio neurologo, io non sono capace di stare fermo un attimo!».

Che ruolo credi abbia avuto lo sport nell'affrontare la sclerosi multipla?

«Lo sport in generale è un'ancora, una carica. Per me la montagna anche in un momento difficile della mia vita, appena dopo la diagnosi, è stata la salvezza. Ovviamente in montagna bisogna essere prudenti, non può essere una via di fuga che ci faccia prescindere dai numerosi rischi. Talvolta le persone tendono a voler fare scalate a tutti i costi, a non tenere conto dei pericoli che ci possono essere nel fare alcune cose, e invece, soprattutto nella nostra condizione, ma in tutte le condizioni in generale, è bene approcciarsi alla montagna sempre con prudenza, e non è sempre facile. Anche per me, quando volevo andare sulla Marmolada, ma non ce la facevo perché ero sotto cortisone e non stavo bene, non è stata affatto una scelta facile: volevo andare a tutti i costi, invece mi sono dovuto fermare perché sarebbe stato un errore, avrei creato difficoltà a me e agli altri».

Hai un messaggio che vuoi lasciare a chi condivide la tua medesima condizione ma magari non la riesce ad affrontare con tanta determinazione e tenacia?

«Io dico sempre che ognuno ha il suo Monte Rosa, quello che per me ha significato questa scalata possono essere metaforicamente le sfide quotidiane delle persone. Non ci deve essere a tutti i costi una scalata di 4000 metri o una maratona: ci sono tante imprese nella vita di tutti i giorni che se fatte con positività ed entusiasmo ti danno la giusta carica. Poi ovviamente io non mi fermo qui: spero di fare la Capanna Margherita con gli scii la prossima primavera».

 

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