SCARPERIA - Mettere da parte il cavallo nero, il proprio lato selvaggio, per cercare in se stesso quello bianco, la razionalità, il metodo. Il percorso inverso di Andrea Dovizioso, con lo stesso traguardo però: vincere. Con la Ducati, pure lei uscita da quella mitica (e limitante) aureola di bestia quasi impossibile da domare. Jack Miller, il tipico australiano Crocodile Dundee che usa parolacce per intercalare e si scrive il soprannome Jackass sul sedere (ovviamente), a 23 anni e alla quarta stagione in MotoGP ha deciso di cambiare, pur continuando a divertirsi. Un taglio ai capelli lunghi e all’approccio naif tutto cuore e rischio, con l’obiettivo di collezionare molti più punti in classifica che sul corpo, segnato da tante cicatrici, le più visibili sul braccio destro e sulla gamba destra. E ce lo racconta.
Jack, quando si spoglia davanti a una donna o allo specchio che effetto fa?
(sorride) «Ho un sacco di cicatrici, è vero. Ognuna racconta una storia. Sono i sacrifici del mio lavoro, la mia passione. E quando diventerò grande saranno fonte di storielle ai miei nipoti. Potrò raccontare di quando ero pazzo, magari ingigantendo anche un po’...».
Era un bambino che amava i racconti d’avventura, magari cowboys e indiani?
«Eccome, tantissimo. E mi piace sempre pensare che ci siano ancora dei cowboy nel mondo».
Si sente uno di questi? E guida la moto da cowboy?
«Magari non proprio un cowboy, però sento che noi piloti siamo un po’ gladiatori. Mettiamo tuta e casco e andiamo in battaglia, anche soltanto con la velocità, che a volte è davvero stupida tanto è forte in curva. E poi credo nel sacrificio, negli ideali. In pista mettiamo entrambi».
A volte però non esagerate con l’aggressività?
«Sì, specialmente quest’anno. Alcuni piloti e soprattutto la gente non capiscono che bisogna fare un passo indietro, tornare allo sport. E’ vero che è passato un po’ dall’ultima volta che abbiamo perso un amico in pista, ma bisogna tenerlo bene in mente: il motociclismo è ancora uno sport dannatamente pericoloso. Una cosa è lo show, un’altra lo sport».
Dovizioso nella sua autobiografia parla della paura di cadere e di quanto in lui prevalga il cavallo bianco della rispetto a quello nero. Per lei non sembra lo stesso.
(sorride) «Già, non proprio... Io mi sento decisamente un cavallo nero, in me prevale il lato selvaggio. Negli ultimi tempi però ho capito che devo pensare di più. Il fatto è che sono cresciuto davvero allo stato brado».
Beh, in Australia le cose più belle sono anche le più pericolose.
«Esattamente. A cinque anni andavo con gli amici a caccia di serpenti che se mi avessero morso mi avrebbero ucciso in pochi minuti. Tutto quello che facevo era selvaggio, la ricerca del limite. Le prime cicatrici le ho collezionate lì. Poi ho scoperto la moto... Da dirt track e da motocross. Magari non finivo tutte le corse, ma ero veloce».
E’ cresciuto nel mito di Doohan e Stoner?
«Il mio eroe era Chad Reed (il fenomeno australiano del supercross, ndr). Volevo diventare un campione di motocross, non avrei mai pensato di diventare uno che correva sulle moto da velocità. La pista l’ho scoperta tardi, a 12 anni. Il mio sogno era l’America del cross, non l’Europa della MotoGP».
Eppure a 15 anni s’è trasferito in Spagna.
«Appena l’ho scoperta, la velocità in pista mi ha folgorato. Anche per questo motivo appena ho potuto sono saltato dalla Moto3 alla MotoGP, il massimo della potenza. Un grande salto, ma è stato più grande quello dall’Australia all’Europa. Mi ha fatto crescere. Mio padre costruì un rimorchio per mettere quello che serviva dentro, da attaccare dietro a un grande camper. Guidava mia madre, perché lui dovette tornare presto in Australia per lavoro. Vivevamo lì sopra, provando tutte le piste e facendo tutte le gare che potevo. E’ stata dura, ma molto bella. Divertente. Per me almeno. Poi ho capito lo stress che provavano i miei genitori, soprattutto finanziario».
Stoner ha raccontato quando gli abbia pesato il dover avere successo per ricambiare economicamente i sacrifici compiuti per lui.
«Verissimo. Una situazione che ti fa sentire da schifo. Anche i miei genitori hanno venduto la casa per farmi inseguire il mio sogno. E so quanta gente l’ha fatto ma non c’è riuscita. Io sì e non sapete quante volte abbia pregato perché tutto andasse bene. Ora che sono nella posizione di ricambiare mi sento molto meglio».
Quando sarà padre farà lo stesso per suo figlio?
«Penso di sì. Mio padre amava le moto, ma non è potuto diventare un pilota perché il suo, che aveva una grande fattoria in Nuova Zelanda, gli impose di restare lì a lavorare. Per questo ha fatto di tutto per me quando gli ho detto che volevo correre. Vorrei essere padre ma anche amico, avere ricordi belli da condividere come è successo a me».
Tornando al cavallo nero, al selvaggio: un anno fa ha tagliato i capelli, è stato un modo di esternare la sua voglia di cambiare?
«Proprio così. Vivevo una situazione disastrosa, diciamolo di m... Ho deciso che era arrivato il momento di smettere di fare il clown. Per anni ho sognato di vivere come i miti, come James Hunt in Formula 1 o i cavalli pazzi delle moto come Barry Sheene. Piloti che fumavano, bevevano, avevano belle donne e rischiavano la vita solo sul talento. Ho cercato di imitarli ma ho capito che era impossibile. Così ho smesso di inseguire le str...ate da bambino e ho iniziato a lavorare per diventare un pilota professionista. Voglio sempre divertirmi, ma limitando la parte animale di me stesso».
Ci riesce?
«I risultati cominciano ad arrivare. Sto lavorando tantissimo per tornare sul podio. So che quando ci riuscirò sarà il clic che cambierà tutto, ma serve tempo, trovare più consistenza, regolarità».?
E una moto in un team ufficiale?
«Al 100% una moto competitiva, ma sono tranquillo. Che finisca nella Ducati rossa o resti qui in Pramac avrò una GP19 ufficiale, una buona moto».
Il popolo rosso sogna sempre un australiano selvaggio su una moto selvaggia.
«La verità è che la Ducati è cambiata molto dai tempi di Stoner. Guardate come guida Dovizioso... Adesso la moto è dolce e permette a tutti di andare molto veloce».
Conosce Daniel Ricciardo?
«Ci siamo incontrati. Condividiamo il fatto di bere lo champagne per festeggiare una vittoria dalla scarpa... Per il resto siamo abbastanza diversi. Lui parla bene l’italiano e viene spesso qui, io devo applicarmi di più. Però mi piace perché sorride sempre».
E a parte le moto a lei cosa piace di più?
«Pescare, vivere all’aria aperta. Campeggiare, fare wakeboard o moto d’acqua per raggiungere un’isola e bersi una birra fresca con gli amici. Insomma, una vita easy. Quella che faccio in estate quando finisce il campionato e torno in Australia. L’estate da me, l’inverno qui in Europa».
Già, lei vive tutto l’anno in estate...
(sorride) «Mica male eh... E poi è quello che fa bene alle mie ossa e alle mie cicatrici. Con tutti gli infortuni che ho avuto mi serve il caldo per fare funzionare il mio corpo».