Tutto ciò che so, l’ho appreso dall’esperienza. Tutto ciò che ho fatto, l’ho affrontato con uno sguardo rivolto al futuro, con un’attenzione al progresso. Al passato non penso troppo; è il mio modo naturale di essere. Comincia così “Johan Cruyff. La mia rivoluzione”, l’autobiografia che il fuoriclasse ucciso sei mesi fa da un cancro ai polmoni ha scritto con Jaap de Groot, appena uscita in Italia e edita da Bompiani. Un concetto espresso con quella semplicità - disarmante ma a ben guardare soltanto apparente - dimostrata in campo per vent’anni, i vent’anni nei quali, non a caso, il calcio è cambiato per sempre. Perché a lui tutto riusciva facile, come amava sottolineare con ammirazione Alfredo Di Stefano, però nulla era mai così facile. Come non lo era stata la sua vita, orfano a dodici anni di un papà che aveva un occhio di vetro e scommetteva con gli amici a chi riusciva a guardare più a lungo il sole, coprendosi ovviamente quello buono. Qualcuno decise che il piccolo Johan, così duramente colpito, meritava un aiuto che esaltasse lo straordinario talento: la madre conobbe l’addetto alla manutenzione dei campi dell’Ajax, se ne innamorò e lo sposò. Il secondo padre Henk sarà una delle figure fondamentali nella vita di Cruyff, insieme con due allenatori, Jany van der Veen e il mitico Rinus Michels, e il suocero Danny Coster, procuratore ante litteram. Quando doveva firmare un contratto, Johan l’aveva sempre accanto. E a chi storceva il naso rispondeva: «Voi siete in sei, perché io dovrei essere da solo?». E allorché decise di avventurarsi in un improbabile affare di maiali perse una barcata di soldi.